Recensione: II Those We Don’t Speak Of

Di Roberto Gelmi - 5 Ottobre 2021 - 12:43
II Those We Don’t Speak Of
Band: Auri
Etichetta: Nuclear Blast
Genere: Vario 
Anno: 2021
Nazione:
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80

Il secondo studio album degli Auri, progetto tutto finlandese nato come progetto parallelo dei Nightwish nel lontano 2011, è una bella sorpresa e conferma quanto di buono proposto con il disco di debutto. Ritroviamo infatti le sonorità sognanti, iperdilatate e a tratti folk che rendono il sound del trio finnico un che di vagamente fatato e fuori del tempo. L’etichetta di “Celtic folk and cinematic pop” rende solo in parte la magia di quanto sanno proporre i musicisti chiamati in causa.

I 50 minuti del platter si aprono con un avvio ammaliante e vagamente oscuro. La voce di Johanna Kurkela si avvicina al magnetismo inarrivabile di Anneke van Giersbergen e a quello di Marjana Semkina. “Those We Don’t Speak Of” è in pratica un lungo intro dai toni crepuscolari e sussurrati che culla l’ascoltatore inquietandolo al contempo. “The Valley” è il primo pezzo che rispetta la forma canzone canonica. Il ritmo è compassato, gl’inserti folk di Troy Donockley si sposano alla perfezione con i tasti d’avorio di Holopainen. La sinergia del trio regala momenti di refrigerio acustico invidiabile… e siamo solo all’inizio! Sonorità più cinematiche in “The Duty of Dust” e a tratti gotiche, con la presenza di una voce recitante cara al tastierista dei Nightwish; da segnalare l’entrata delle percussioni nel finale del brano, con un effetto a sorpresa assicurato. “Pearl Diving”, come dice il titolo, è una piccola gemma incastonata nella scaletta del disco e un potenziale singolo di successo: il guitarwork vicino a sonorità stoner dona un tocco ricercato e malinconico al sound degli Auri che continua, tuttavia, a mantenersi in un equilibro ben controllato con la voce di Johanna a dettare le regole.

 

 

Difficile fare meglio dopo un simile pezzo. “Kiss the mountain” è comunque da brividi, riesce a ricamare una soundscape arioso e immaginifico lavorando per sottrazione e lasciando scorrere le strofe come acqua sorgiva. Viene in mente l’atmosfera fatata di “Meadows of heaven” da Imaginaerum… “Light and flood”, con i suoi sette minuti di durata, è il brano più lungo in tracklist, nonché strumentale ambiziosa (recuperate “Music Inspired by the Life and Times of Scrooge se volete ascoltare Holopainen in questa dimensione). Dopo una prima parte orchestrale, gli arpeggi di chitarra acustica al terzo minuto danno avvio a una lunga cavalcata caleidoscopica. Più un pezzo di musica d’arte che un brano da disco pop, ma questo è il bello degli Auri, alto e basso si fondono in modo incredibilmente naturale. Discreta la successiva “It Takes Me Places”, con parti di ghironda e il solito piano sbarazzino di Tuomas a dialogare con un violino ispirato. Troviamo elementi di world music e cinematici nella successiva “The Long Walk”, che prevede anche alcune note di chitarra elettrica nella parte finale. Siamo quasi in chiusura. “Scattered To The Four Winds” è molto vicina a certe sonorità dei Nightwish, quasi sembra di sentire Anette Olzon tornata a cantare con i suoi ex compagni d’avventura, oppure Hietala, anch’esso (ormai) nel passato della band finnica. Le parti di cornamusa di Troy Donockley sono sempre benaccette e non potevano mancare all’appello. “Fireside Bard” è l’epilogo del disco, prevede una voce maschile e una femminile, per un notturno del XXI secolo che riesce a riproporre il concetto di Romanticismo a noi ascoltatori del nuovo millennio.

Che dire? Come spiegare il permanere di un simile afflato idillico in terra finnica? La terra dei mille laghi ha lottato per diventare libera e indipendente: oggi è un Paese che per certi aspetti sembra un nuovo Eden, anche se a latitudini proibitive. Ringraziamo Holopainen & Co., alfieri di queta Arcadia artica, per la musica fatata che continuano a regalarci. Gli Auri a tratti eclissano anche i Nightwish, che nel loro attuale symphonic metal ipertrofico trovano il loro limite principale. Avanti così!

 

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