Recensione: III
“III”.
Così, assai semplicemente, s’intitola il nuovo lavoro degli inglesi Xerath, il terzo appunto della serie; che si colloca a distanza di sette anni dalla loro nascita, consequenziale agli altri due full-length (“I”, 2009; “II”, 2011).
L’avverbio ‘semplicemente’, tuttavia, è da riferirsi solo e soltanto alla brevità e sinteticità del nome giacché, al contrario, la musica del quartetto di Basingstoke configura l’esaltazione massima possibile del contenuto orchestrale che si possa accostare al death metal. Senza, naturalmente, stravolgerne i consolidati dettami primigeni. Il che pare un’ovvietà, ma che ha fornito, da sempre, un robusto spunto a sostegno della teoria che persegue una supposta antitesi fra death metal e musica sinfonica. Giungendo addirittura all’eresia.
Certo: Death, Cannibal Corpse, Dismember e tantissimi altri come loro sono distanti anni luce, artisticamente parlando, dalla proposta degli Xerath. Il death stesso, nondimeno, ha sempre presentato e tuttora presenta dei margini di evoluzione, di progressione, di rinnovamento assolutamente insospettabili, a priori. Basti pensare alle iperboliche accelerazioni futuriste del ‘cyber’, per esempio, per rendersi conto e soprattutto accettare che ‘anche’ album come “III” possano rientrare senza alcuna difficoltà nell’immensa famiglia del metallo della morte. Un genere capace di elaborare in se stesso metamorfosi via via sempre più caleidoscopiche pur mantenendo costantemente saldo il legame con gli Avi.
E allora, si può gustare nella sua magnificenza l’esplosivo incipit di “I Hold Dominion”, trascinante opener capace di scatenare entusiasmi sopiti da, magari, monotone cavalcate nell’oltretomba dell’underground. Con un mid-tempo terremotante, in grado di staccare le vertebre cervicali e, assieme, ricco di potenza, classe e musicalità concentrati in un refrain à la… Electric Light Orchestra! Un richiamo, questo, per nulla peregrino. Che, al contrario, inspessisce di variopinti colori un sound possente già di suo e che, con tali agghindamenti, raggiunge vette davvero notevoli di densità sonora. Com’è lampante nella fantascientifica “2053”, ciclopico baluardo dell’energia pura e incontaminata. Richard Thomson, giustamente, evita di andare per il sottile attaccando con furia e determinazione le linee vocali sia con il growling sia con lo screaming, fissando a fuoco la corretta aggressività di uno stile sostanzialmente unico. Uno stile rabbioso ma soave, irruento ma contenuto, dirompente ma flemmatico. Che non si fa travolgere dalle onde generate dal cozzo di correnti musicali opposte, quali sono i segni caratteristici che contraddistinguono con decisione, per l’appunto, “III”. Proseguendo testardamente nella costruzione di un muraglione di suono immenso, sul quale si distinguono finissimi manufatti d’ornamento (“I Hunt For The Weak”, “Passenger”), eretto sulla scorta di riff assolutamente devastanti e roboanti orchestrazioni da brivido (“Autonomous”, “Bleed This Body Clean”, “Sentinels”).
È chiaro che tale estrema ‘sinfonizzazione’ può far storcere il naso a più di uno, tuttavia gli Xerath possiedono tutte le qualità tecnico-artistiche per non scivolare nell’ampollosità, nella sguaiata sdolcinatezza. Anzi, a ben vedere non sono poi molti, i momenti di calma che attraversano il platter. La tensione emotiva è costantemente alta, la pressione sonora non subisce flessioni di sorta, il ritmo non cala al trascorrere dei minuti. La furia metal, insomma, non viene mai meno (“Death Defiant”, “Ironclad”, “Demigod Doctrine”), manifestando con ciò una non comune capacità di mantenere per lungo tempo e su livelli estremi il vigore compositivo ed esecutivo. Non mancando l’obiettivo, pure, di centrare hit dal valore eccezionale come le visionarie, cinematografiche, policrome “Veil Pt.1” e “Veil Pt.2”; quest’ultima trapassata da un guitar-solo memorabile.
Nessun pregiudizio, a priori. Gli Xerath e il loro stupendo “III” rappresentano un’altra manifestazione del death metal.
Un’altra.
Daniele “dani66” D’Adamo
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