Recensione: III – Over the Under

Di Stefano Risso - 17 Ottobre 2007 - 0:00
III – Over the Under
Band: Down
Etichetta:
Genere: Sludge 
Anno: 2007
Nazione:
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85

Fa veramente piacere ascoltare al giorno d’oggi un disco tanto genuino, frutto del lavoro di musicisti che hanno impiegato anima e corpo nel realizzarlo, senza sottostare (apparentemente) alle regole ferree del business. Non si sarebbero spiegati altrimenti i cinque anni di attesa per dare alla luce il seguito di II: A Bustle in Your Hedgerow, segno che per i Down lo stato psicofisico dei suoi membri è legato indissolubilmente al prodotto musicale, molto di più di quanto lo sia per una comune band.

Sì perchè, come i fan gia sapranno, nella musica dei Down traspaiono innanzitutto passione e sentimenti profondissimi, merce ben più rara della semplice ispirazione, elementi che devono nascere unicamente da dentro, elementi da cogliere, non da ricercare. Evidentemente i tempi per III – Over the Under erano finalmente maturi, e alla luce di questi platter possiamo asserire che l’attesa non è stata vana. Di avvenimenti funesti ne sono capitati ai nostri, in particolar modo all’umorale Phil Anselmo, dall’uccisione di Dimebag Darrell, alla devastazione di New Orleans da parte dell’uragano Katrina, e tutto questo sembra aver pesantemente influenzato la stesura di Over the Under, su cui aleggia un’aurea di disperazione, un sentimento di desolazione interiore e, ovviamente, di rabbia.

Il compito di tradurre in musica tutto ciò spetta a due protagonisti principali: le chitarre affidate a Pepper Keenan e al barbuto Kirk Windstein e la prestazione vocale di Anselmo, veri artefici di Over the Under. Per quanto impeccabili siano Rex Brown (basso) e Jimmy Bower (batteria), il terzetto sopra fa il bello e il cattivo tempo, donando sfumature e calore ai brani, accompagnando l’ascoltatore in quest’ora di musica. Senza particolari sconvolgimenti nello stile, i Down si trovano in equilibrio tra hard rock, sludge, passaggi al limite del doom, stoner, pesantissime influenze southern, e pennellate blues che affiorano per tutta la durata dell’album. Riff circolari, ora mastodontici, ora maggiormente accattivanti, sognanti, lanciati con velocità in cavalcate hard/heavy o rallentati secondo dettami sabbathiani… Insomma una grande varietà che si percepisce immediatamente, ma che impiega diversi ascolti per essere assimilata a pieno, legata da un filo conduttore rappresentato dalla maestria di questi musicisti nel saper dosare a dovere la mano, racchiudendo le dodici tracce presenti sotto un denominatore comune.

Ma al di là degli antefatti e dei discorsi che seguono, la cosa più importante è la musica, e in Over the Under ne abbiamo tanta, sempre di altissima qualità, con diversi brani che brillano di luce propria. Potrà sembrare banale, ma questo è un album composto interamente da canzoni… Nessun filler, nessun episodio zoppicante, solo cuore e sudore per i Down, che riescono a stupire rimanendo in certi casi estremamente classici, legati alla tradizione, emozionali e all’occorrenza grezzi, esaltati da una produzione che asseconda perfettamente lo spirito della band. Three Suns and One Star irrompe prepotentemente, con riff che difficilmente non comincerete a seguirne l’andamento con la testa, passando per The Path, dove il metal incontra il blues per un florido connubio, si assiste via via al procedere della tracklist con N.O.D., I Scream, e On March the Saints, forse i pezzi meno riusciti (o meglio, i più canonici), per poi inaugurare una serie di hit da ricordare a lungo. Never Try è la trasposizione in musica delle atmosfere ovattate e fumose di New Orleans, condotta con chitarre di una delicatezza da bluesman navigati, con un Anselmo mai così espressivo, dando vita a un brano da pelle d’oca. A fare da contraltare giunge immediatamente Mourn, in cui le distorsioni prendono il sopravvento ergendo un muro sonoro degno di questo nome. Le emozioni non sono finite, perchè Beneath the Tides è lo specchio fedele del disco, in cui il conflitto di emozioni provate dai nostri esplode in tutta la propria forza, in cui Phil supera se stesso, ascoltare per credere. Una breve pausa con His Majesty the Desert, mai titolo più azzeccato per una brano che dà proprio il senso di solitudine e di magia voluto, a cui si lega Pillamyd, a mio avviso il capolavoro di tutto Over the Under. Un riff sabbathiano all’ennesima potenza ci travolge senza preavviso, irruento, sofferto, dando vita a una perla che regala attimi memorabili, raggiungendo il culmine sul finale, dove le ritmiche si fanno a dir poco mastodontiche, prima di sciogliersi in un assolo decisamente ispirato. In the Thrall of It All (piccolo tributo a Jimi Hendrix, a mio avviso), si attesta su ottimi livelli, anche se viene in un certo senso oscurata dalla conclusiva Nothing in Return (Walk Away): un trip di quasi nove minuti, tra visioni psichedeliche di pinkfloydiana memoria, e riff di rara espressività, dove Anselmo pone l’ultimo sigillo a una prestazione maiuscola.

Se questo non bastasse, posso inoltre sottolineare la bellezza dell’artwork, curato e appositamente rovinato, proprio per creare l’effetto “vintage” che la band cercava, anche con il cartone del digipack più ruvido del solito (anche dei piccoli particolari concorrono a fare la differenza). Over the Under è un omaggio alla propria terra, un omaggio alla vita, con tutti i suoi tormenti e le sue difficoltà.

Stefano Risso

Tracklist:

1. Three Suns and One Star
2. The Path
3. N.O.D. (mp3)
4. I Scream (mp3)
5. On March the Saints (mp3)
6. Never Try (mp3)
7. Mourn
8. Beneath the Tides
9. His Majesty the Desert
10. Pillamyd
11. In the Thrall of It All
12. Nothing in Return (Walk Away)

 

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