Recensione: III: Pentecost

Di Stefano Usardi - 4 Maggio 2021 - 9:34
III: Pentecost
Band: Wytch Hazel
Etichetta: Bad Omen Records
Genere: Hard Rock 
Anno: 2020
Nazione:
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85

Ho scoperto i Wytch Hazel, giovane compagine britannica giunta con questo “III: Pentecost” al terzo album, proprio grazie alla copertina di quest’ultimo lavoro che, facendomi inizialmente pensare a un heavy metal di stampo epico, ha attirato immediatamente la mia attenzione. In realtà, i nostri propongono invece un hard & heavy della vecchia scuola: quello degli anni ’70 e primi ’80, per capirci, dominato dalle armonizzazioni delle chitarre e venato di folk tra una melodia eroica e l’altra, con un retrogusto vagamente hippie che dona al lavoro il suo tono così particolare. Immaginate un ibrido tra Angel Witch e Thin Lizzy, con una spruzzatina di Jethro Tull e avrete un’idea della musica del quartetto di Lancaster; aggiungete un comparto lirico di evidente impronta cristiana e il gioco è fatto. “III: Pentecost” è uscito sul finire del 2020, e vi dico subito che se l’avessi scoperto prima sarebbe finito dritto ai primi posti della mia top ten natalizia di Truemetal. Ebbene sì, signore e signori: ci troviamo dinnanzi a un album decisamente superiore alla media, in cui ogni elemento è esattamente dove dovrebbe stare e si amalgama alla perfezione a ciò che gli sta intorno. Le chitarre graffiano ma senza esagerare, sboronando solo quando si tratta di intessere melodie maestose e trionfali, la sezione ritmica trasmette la giusta carica mantenendosi comunque elegante e misurata e la voce di Colin rimane impressa senza la minima difficoltà, arrivando esattamente dove vuole pur attestandosi su toni medi, quasi discorsivi. La produzione è pulita e vagamente rétro, perfetta per il genere e soprattutto per creare il giusto alveo a composizioni che mi permetto di definire sfavillanti. Sono, infatti, proprio le canzoni che lo compongono a rendere questo “III: Pentecost” un gioiello: immediate, semplici e coinvolgenti ma senza scadere nella banalità, infarcite di melodie possenti e grandiose e ciò nonostante lontane dalle stucchevoli baracconate di chi non ha, in realtà, molto da dire. Nessun filler, nessuna canzone che sia meno che appagante: dieci tracce per quarantatré minuti scarsi e poi tutti a casa, frastornati da un livello compositivo che si mantiene variegato e brillante senza perdere un briciolo di accessibilità o scadere nel macchinoso, con tracce che si susseguono in modo organico e naturalissimo dispensando, senza soluzione di continuità, melodie solari e gloriose, rallentamenti contemplativi, intermezzi di Hammond e Mellotron qua e là per enfatizzare ulteriormente il profumo vintage, ritmi cangianti ma sempre azzeccati e, soprattutto, lo strapotere delle chitarre gemelle a impreziosire ogni traccia con la loro carica enfatica e trionfale.

Si parte subito alla grande con la carica propositiva di “He is the Fight”, traccia d’impatto in cui si mettono subito in luce le caratteristiche salienti del quartetto inglese, mentre con “Spirit and Fire” si passa da un’apertura più guardinga a uno sviluppo stradaiolo che esplode nel ritornello declamatorio. Un certo trionfalismo domina l’avanzata di “I am Redeemed”, marcia dall’afflato addirittura più sacrale della traccia precedente e un breve intermezzo squisitamente rétro. Un arpeggio languido apre invece una delle gemme dell’album, “Archangel”, col suo andamento ambivalente tra strofa tesa e inquieta e l’esplosione gloriosa nello splendido ritornello. Molto bella la pausa che poi cede il passo all’esplosione che traghetta al finale. Si prosegue con una delle mie tracce preferite dell’album, “Dry Bones”, dotata di una melodia portante sfacciata, trionfale e spaventosamente coinvolgente, mentre con “Sonata”, breve strumentale di tre minuti, si rifiata un po’ grazie a toni languidi e crepuscolari. “I Will Not” rialza i giri del motore dispensando ritmi battaglieri, un altro giro di chitarra memorabile e un solo strafottente dal sapore a tratti maideniano. Il suono della pioggia e la marcia funebre di Chopin introducono “Reap the Harvest”, traccia lenta e dall’incedere drammatico che, però, lascia intravedere sprazzi di pace e tranquillità di tanto in tanto, che ne spezzano la carica solenne con note quasi romantiche. “The Crown” è una ballata folk dai toni distesi e camerateschi, che si carica di pathos con l’entrata in scena degli archi, mentre una citazione dal libro di Daniele introduce la conclusiva “Ancient of Days”, che col suo incedere da marcia trionfale gloriosa ed apostolica funge da perfetta chiusura per un album ottimo sotto tutti i punti di vista. “III: Pentecost” è un lavoro brillante: diretto, passionale e onestissimo, scritto bene e suonato meglio, ed è sicuramente degno di far parte della collezione di ogni estimatore della buona musica.
Come scrivevo prima: un gioiello, niente di più e niente di meno.

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