Recensione: Il Confine
Non hanno certo bisogno di particolari presentazioni. Sono uno tra i gruppi più noti della scena folk italiana, con tre album all’attivo e un numero imprecisato di concerti sulle spalle, tornano finalmente sugli scaffali dei negozi i Folkstone! Non che avessimo lamentele da fare, la formazione bergamasca ci ha abituato bene, regalandoci una nuova uscita praticamente ogni anno. Dove trovino il tempo e le energie per comporre è un mistero; il gruppo è, in effetti, sempre in tour e riempie la propria agenda di date, alternando partecipazioni a grandi festival a spettacoli acustici in piccoli paesi dell’entroterra lombardo. La curiosità è tanta, quindi passiamo immediatamente ad analizzare questa nuova fatica discografica: come per le precedenti uscite, anche Il Confine si presenta con una confezione cartonata di buona qualità, tutta sui toni del marrone, che, ancora una volta, ritrae i componenti del gruppo in copertina. Dopo aver appagato l’occhio, siamo pronti per dedicarci all’udito; passiamo dunque al setaccio le quattordici tracce del disco e vediamo quali sorprese ci hanno riservato i Folkstone.
L’apertura del disco è affidata alla title-track; le sonorità mediorientali dell’incipit si condensano in una serie di riff più compatti, che danno vita a un brano in pieno stile Folkstone, con cornamuse e fiati che si affiancano agli strumenti elettrici, mentre la carismatica voce di Lore cresce e prende spazio, rafforzando l’ossatura del pezzo fino alla conclusione, che ripercorre la strada tracciata all’inizio del brano e ci trasporta verso la sferzante Nebbie. L’avvio frenetico esplode rapidamente e sui suoi resti nasce una canzone rapida e briosa, non particolarmente originale, ma decisamente coinvolgente. Qualche cambio di ritmo stempera leggermente la monotonia, ma è chiaro che questo pezzo vuole semplicemente travolgere, un ariete che avrà sicuramente la sua gloria piena in sede live. Se l’ascoltatore malizioso poteva già cominciare a pensare che i bergamaschi avessero inciso un disco uguale ai precedenti, Omnia Fert Aetas è un’ottima smentita: più che folk, dalle casse del nostro stereo esce un epico e ipnotico brano medievaleggiante, che non può che portare alla mente i primi In Extremo o gli Schelmish; una convincente dimostrazione della capacità del gruppo di saper mutare il proprio stile senza snaturare la propria natura. Non Sarò Mai torna a esemplificare la volontà libertaria dei musicisti, ripercorrendo quelle tematiche di individualismo anticonformista che tante volte sono state eviscerate nei testi della band. Potente e decisa, scuote con forza l’ascoltatore e lo esalta, complici cornamuse lanciate a tutta velocità e batteria scatenata. Cambio di registro immediato con Luna; un sognante e delicato brano in dialetto, un’intensa e partecipata poesia che cresce di tono senza mai indurirsi eccessivamente. Una traccia bizzarra solo all’apparenza, che in realtà si inserisce perfettamente nella discografia della band, da sempre attaccata alla meraviglia della Natura e legata al territorio.
Anomalus è uno strumentale piuttosto canonico: cornamuse, percussioni e fiati giocano tra loro nel tentativo di ricreare l’atmosfera di una fiera medievale o di una festa paesana. Simpatico, pur non essendo particolarmente innovativo. Storia Qualunque è un brano veloce e immediato, animato da fraseggi decisi e melodie accattivanti, un buon passaggio per arrivare al successivo Frammenti; bassi pulsanti e armonie celtiche ci introducono in un pezzo caratterizzato da ammiccanti crescendo, ritmi che penetrano direttamente nella cassa toracica e battono con intensità. Il solo di cornamusa ricorda un po’ le suggestioni asturiane di Hevia, ma coinvolge e rapisce, trasportandoci audacemente nella successiva Lontano dal Niente. Anche in questo caso, il gruppo ripercorre strade già battute nei precedenti capitoli della sua discografia; un piacevole, seppur non essenziale, intrattenimento, che ha come punto di forza una bella parte strumentale verso la conclusione. L’arpa di Silvia da il via a Ombre di Silenzio, un brano delicato, un sussurro che cresce lentamente, per trasformarsi in una traccia dalla carica lancinante, quasi doloroso nella sua intensità. Passiamo a Simone Pianetti, pezzo dedicato a un eroe popolare della Val Brembana, personaggio a metà strada tra difensore degli oppressi e criminale. Bello e ben costruito, si distingue dai suoi fratelli per i fraseggi variegati e le soluzioni stilistiche adottate durante la sua esecuzione, che lo particolareggiano e lo rendono uno dei più riusciti dell’intera produzione. Come nel precedente Damnati ad Metalla, anche in questo disco c’è spazio per una cover e proprio come nel precedente album viene scelto un brano di artisti che hanno fatto la storia della musica del nostro paese. La famosa C’è un re, originariamente scritta da I Nomadi, viene riproposta in una veste più decisa e ricca di energia che, a modesto parere di chi scrive, riesce a migliorarla notevolmente. Il bellissimo testo acquista una carica addizionale che riesce a scuotere le viscere e far venire la pelle d’oca all’ascoltatore, dimostrando la maturità della band, che riesce a far proprio un brano e riproporlo con uno stile personale, donandogli un’anima differente senza snaturarlo. Ci avviamo verso la conclusione con un nuovo brano ad alto coefficiente di potenza musicale: Grige Maree. Un amalgama tra momenti accelerati e ottundimenti sonori, in una riuscita alchimia che tiene alta l’attenzione fino al suo epilogo.
A sorpresa, dalle casse del nostro stereo fuoriesce una nuova versione di Vortici scuri in chiave acustica, versione che chiunque segua la band in concerto avrà già avuto modo di apprezzare. Una conclusione tenue e leggiadra, lasciatevi cullare e godetevi ogni nota, questa volta è davvero la fine.
Eccoci dunque giunti all’angolo delle conclusioni, dove si tirano le somme e si cerca di condensare in poche frasi un intero disco. Come avrete intuito leggendo le righe precedenti, Il Confine è davvero un buon album che conferma l’eccellente vena artistica dell’ensamble bergamasco. Questo CD si distacca dai precedenti per due aspetti fondamentali: innanzitutto la volontà di sperimentare e di “osare”, proponendo sonorità inconsuete e che possono, in qualche modo, considerarsi lontane dai precedenti album (Sgangogatt, in questo caso, si può considerare disco a sé stante). I Folkstone sono in grado di incanalare energia nella propria musica ed esaltare l’ascoltatore come pochi altri, non tanto con abilità tecniche mostruose, quanto con una genuina e viscerale potenza che scaturisce da indovinate alchimie musicali. Di contro, c’è da dire che, in alcuni momenti, il disco suona un po’ troppo scontato e ammicca eccessivamente all’ascoltatore, con sonorità di sicuro impatto che riportano fin troppo alla memoria la produzione precedente del gruppo. Nonostante ciò, promozione a pieni voti: i bergamaschi dimostrano di non volere fossilizzarsi su quanto di buono hanno già prodotto e si spingono oltre, attraversando quel confine che da il titolo all’album; ci rallegriamo per questa maturazione personale e artistica che conferma quanto di buono sapevamo e ci lascia ottime speranze per il futuro.
Damiano “kewlar” Fiamin
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Tracce:
1. Il Confine
2. Nebbie
3. Omnia Fert Aetas
4. Non Sarò Mai
5. Luna
6. Anomalus
7. Storia Qualunque
8. Frammenti
9. Lontano dal Niente
10. Ombre di Silenzio
11. Simone Pianetti
12. C’è un re
13. Grige Maree
14. Vortici scuri
Formazione:
Lore- Voce, cornamusa, Rauschpfeife
Federico- Basso elettrico, coro
Roby- Cornamusa, voce, rauschpfeifes
Teo- Cornamusa, bombarda, rauschpfeifes,
Edo- Batteria, percussioni
Silvia- Arpa celtica, tamburello, coro
Andreas- Percussioni, cornamusa, rauschpfeifes
Maurizio- Cornamusa, rauschpfeifes, flauti, Cittern, coro