Recensione: Illmatic
Ho aspettato piuttosto a lungo prima di stendere le prime righe di questa recensione, nella speranza che emergesse l’elemento che questo lavoro proprio stentava a trasmettermi: coinvolgimento. Immediatamente ho colto vari aspetti buoni, sui quali i Glacial Fear dimostravano di sapersi muovere discretamente, ma il mio gradimento si è sempre fermato qui. Ho quindi atteso, consapevole che quella maledetta bestiaccia (benedetta bestiaccia, in realtà…) che si chiama ‘gusto personale’ può tirare brutti scherzi nel valutare un Cd: parecchie mie posizioni le ho riviste, ma nel complesso non sono rimasto granchè entusiasta di Illmatic.
Trattasi di Deathcore con qualche influenza Thrash, ben prodotto e suonato in maniera più che sufficiente; un genere che bisogna gestire con molta attenzione per non cadere nello scontato. Non è tanto questo ad affliggere i Glacial Fear: le canzoni non sanno di già sentito, o meglio, propongono delle intuizioni relativamente fresche come contorno a strutture forse già note.
Ma quanto avrebbe dovuto risultare più marcato sarebbe stato, innanzitutto, un approccio più diretto. Dall’essenzialità delle partiture è lecito aspettarsi una certa dose di potenza pura, qualche strattone sonoro degno di essere ricordato: riducendo invece al minimo il lavoro della sezione ritmica, affidandosi quasi esclusivamente al lavoro di chitarra, ecco che invece l’impatto lascia il tempo che trova.
Dal canto loro, le chitarre fanno un lavoro interessante, almeno come ricerca: senza disdegnare ricerche di stampo quasi New School (evidenti, non so quanto volute, in “Cruel Culture“), si spostano su sentieri tracciati da album particolari (purtroppo, a mio parere, non apprezzabili) come potrebbero essere Into The Torns Apart o Diatribes. Intendiamoci, praticamente nulla ha a che vedere il sound dei Glacial Fear con quello dei Napalm Death: il paragone riguarda solo certi risvolti chitarristici di tracce come “Delta9: Green Power“.
Ma le canzoni non decollano. Peccato, perchè il gruppo dimostra di non aver schifo a fare ricorso a nessun elemento, se necessario: clean vocals e loop appaiono con molta discrezione, dando il proprio contributo e fuggendo via. Purtroppo ci si ferma qua: pezzi ben studiati ma, senza offesa, poco espressivi. E, sinceramente, il gruppo ne ha di carte da giocare. In mezzo a defezioni varie si trovano altrettante idee buone, che lasciano ben sperare per il futuro. Intanto prendiamo questo lavoro per quello che è: una bella prova di professionalità, tanto ben curata quanto anonima.
Matteo Bovio