Recensione: Immemorial
Leggendo la bio degli irlandesi Ravenlight, formatisi nel 2018 e arrivati con questo “Immemorial” al traguardo del secondo album più un paio di EP e un album dal vivo in poco più di quattro anni, mi aspettavo un gruppo che pescasse a piene mani dal ricettario dei Nightwish: una proposta legata ad un power metal mascherato da gothic e legato a doppio filo alle capacità della frontwoman ma che, in sostanza, non aggiungesse nulla a quanto sentito negli ultimi vent’anni dell’ennesimo sotto–genere arrivato ormai a saturazione. Invece ho trovato un lavoro che sì, si muove in più di un’occasione sotto l’ombra del gruppo di Kitee, ma che sotto la superficiale visione di gruppo derivativo nasconde ricercatezza, capacità compositive da tenere d’occhio, un ottimo bilanciamento tra i suoi diversi aspetti e, per finire, una voce che non rappresenta (come invece succede piuttosto spesso) l’unico motivo di interesse relativo al gruppo ma si incastona perfettamente nell’amalgama sonoro creato dal quartetto. Durante l’ascolto di “Immemorial” si percepisce chiaramente come Rebecca Feeney metta in mostra un’impostazione vocale meno liricheggiante di una Tarja Turunen, giusto per non andare troppo off-topic, preferendo concentrarsi su toni medi ma senza precludersi qualche impennata più stentorea, e dimostri padronanza dei propri mezzi e una potenza vocale messa in mostra solo quando serve davvero alla canzone. Ad accompagnarla nei tre quarti d’ora di cui si compone “Immemorial” un comparto strumentale che, sebbene si mantenga ancora molto legato ai classici stilemi del power sinfonico di inizio millennio, li mescola con echi più vicini a certo prog e una ricerca di melodie accattivanti ma senza rinunciare alla concretezza, saltellando tra passaggi eleganti e chitarre ruvide.
Si parte subito dinamici con l’apertura in odor di metallo classico di “Masque of Red Death”: i giri del motore si mantengono medio alti, con il gruppo che dispensa la giusta dose di fomento grazie all’ottimo bilanciamento tra chitarre e tastiere (lasciate qui in secondo piano per fungere da legante al resto della materia sonora) mentre Rebecca inizia a scaldarsi e preparare il terreno grazie alla sua duttilità. Già con la successiva “Reflections” si percepisce un lieve cambio di atmosfera dato dalle tastiere che, sebbene ancora di supporto, mettono in mostra un tiro più malinconico, pur senza perdere in immediatezza. “Painters Dream” torna a un tiro più cafone, in cui chitarre sfacciate si affiancano a melodie più serpeggianti per poi fondersi in un ritornello solare, mentre con “Spirit of Life” i Ravenlight spingono di più sull’immediatezza rock, confezionando un pezzo che non avrebbe sfigurato su un “Dark Passion Play”. La componente sinfonica resta in secondo piano, ritagliandosi il suo spazio solo quando serve per non appesantire troppo le composizioni, che si mantengono facilmente assimilabili senza risultare banali. Con “Paper Ships” i ritmi si fanno più scanditi, donando al pezzo un tono più sofferto: il pezzo incede con una certa solennità su una melodia di piano, coadiuvato dalla voce di Rebecca che si mantiene su toni più discorsivi, elegiaci. L’apertura di “Rain” sembrerebbe dirci che siamo arrivati al momento della ballata; invece il pezzo si sviluppa sui toni medi della marcia dai toni sì languidi ma senza calcare troppo la mano, distendendosi sul suo tappeto tastieristico senza troppi scossoni. Una melodia che mi ha ricordato l’attacco di “Perfect Mansions” dei Virgin Steele apre “Spiral”, che condivide con la traccia di DeFeis e soci l’incedere solenne e romantico. Nei quattro minuti e mezzo scarsi che lo compongono, infatti, i Ravenlight infondono abbondanti dosi di pathos mantenendosi su ritmi compassati, quasi indolenti, riecheggiando a modo loro quanto fatto dai Nightwish con “Sleeping Sun”. Di tutt’altro avviso la successiva “Left Behind”, che rialza improvvisamente i ritmi esibendo una maggiore determinazione. Il risultato è una traccia quadrata in cui le tastiere si fanno più presenti, contendendo la scena alle chitarre con trame vorticose e vagamente inquiete, salvo poi sciogliersi in un breve assolo più languido poco prima del finale. “The Maze” torna ai toni scanditi e romantici da power ballad già sentiti in “Spiral”, ma spingendo un po’ di più sull’enfasi e sulla carica propulsiva. Chiude “Immemorial” la lunga “Springtime Lament”, che con i suoi otto minuti e mezzo abbondanti concede il tempo ai Ravenlight di giocarsi la carta dell’enfasi epica. Il pezzo si mantiene su ritmi quadrati, dispensando pathos e giocando con un fare narrativo che si appropria della sua parte centrale, più dilatata, per creare la giusta aspettativa in attesa del terzo atto più spinto e trionfale. In effetti anche qui si percepisce l’ombra dei Nightwish e della loro “Ghost Love Score”, ma va dato atto agli irlandesi di essersi mantenuti su un terreno meno pedissequo e di aver mantenuto il pezzo elegante e d’effetto, rendendolo un ottimo sigillo conclusivo per un album elegante e strutturato. Sebbene “Immemorial” si indirizzi principalmente ai fruitori di power sinfonico e sottogeneri affini, ritengo che possa tranquillamente dire la sua anche al di fuori di questo mercato ristretto grazie a un fare concreto, immediato ed accattivante, che sfronda gli eccessi fin troppo stucchevoli di certi colleghi e prende le distanze da certa musica usa e getta. Ben fatto.