Recensione: Immortals
And to you, thy enemy of this land
I say: μολὼν λαβέ, molòn labé, come and take it!
Quasi cinque anni ci separano dall’ultima fatica dei greci Firewind: “Few Against Many” (2012). Cinque anni che hanno visto il fondatore Gus G. impegnato nel rilasciare ben due album solisti, “I Am the Fire” (2014) e “Brand New Revolution” (2015), e tanta attività live, sia con Ozzy Osbourne che a supporto dei suddetti lavori. Anche gli altri membri della band hanno avuto il loro da fare, con Bob Katsionis che nel frattempo ha preso il posto di Roland Grapow nei Serious Black. All’esordio con i Firewind su disco, il cantante Henning Basse (ex-Metalium, Sons Of Seasons), che aveva già preso parte nel 2007 nel tour di “Allegiance” e che vanta diverse collaborazioni con la band e con Gus G. Il tempo a disposizione ha consentito ai ragazzi di realizzare il primo concept album della storia dei Firewind, che dalla Grecia ci riportano alle Termopili, tema recentemente affrontato anche dai Sabaton: Leonida ed i suoi trecento contro i diecimila Immortali, corpo scelto di fanteria delle milizie di Serse. Secondo quanto riportato nelle Storie di Erodoto, quando un Immortale veniva ucciso era immediatamente rimpiazzato, dando l’impressione che i guerrieri rimanessero sempre costanti in numero, come fossero invincibili. La storia prosegue anche con la battaglia navale di Salamina, sempre nel 480 a.C., in cui la lega panellenica sconfisse Serse con l’astuzia del generale ateniese Temistocle che sfruttò le peculiarità del campo di battaglia: le grandi navi persiane nel furioso tentativo di accerchiare quelle greche nello stretto di Salamina finirono per ritrovarsi costrette a difficili manovre offensive in uno spazio tanto angusto, dando la possibilità agli avversari di contrattaccare e costringerli alla ritirata.
Scendono sul campo di battaglia di Immortals gli immortali Firewind, forti dei loro arrembanti riff e di una lineup coesa, con un Henning Basse decisamente convincente in questo debutto, con una voce profonda e graffiante ad affrontare il nemico. Spicca tra i brani del lotto “Ode to Leonidas”, singolone con un’intro sbruffona e provocatoria narrata dallo stesso Leonida. Una grinta che resta immutata in tutto il disco, dall’opener “Hands of Time” alla guerresca “We Defy”: già immaginiamo il pubblico in sede live a gridare quest’inno di sfida. Non manca la ballatona “Lady of a 1000 Sorrows” dall’arpeggio oracolare, col suo bel giro di basso ed il buon Basse che sfodera una performance emozionale degna di nota. Molto bella anche “Back on the Throne”, con una decisa virata verso lidi heavy, solo discreta invece “War of Ages”, brano che ci porta a Salamina, sempre con il doppio pedale irrefrenabile del belga Johan Nunez. Tanta qualità in questa fatica dei Firewind, un lavoro suonato ad altissimi livelli da maestri dell’heavy/power melodico e che può vantare un’ottima produzione; sempre fenomenale ma ancora poco sfruttato il talento di Bob Katsionis alle onnipresenti tastiere, messe poco in risalto dal missaggio; estremamente eleganti i solos di Gus G., ma non credo avessimo bisogno di conferme in questo senso. Punto debole dell’album è invece l’assenza di particolare varietà nella proposta, in quarantacinque minuti che filano in maniera prevedibile come riascoltare una storia di oltre duemila anni fa, ma con soluzioni ed arrangiamenti appartenenti agli ultimi decenni della storia del rock già sentiti e risentiti, per quanto inattaccabili da un punto di vista tecnico ed esecutivo.
La discesa degli Immortals non deluderà certamente i fan del genere, ma d’altro canto l’ultimo lavoro dei Firewind aggiunge veramente poco a quanto già mostrato ad oggi dai ragazzi, in un disco indubbiamente realizzato per un manipolo di infaticabili guerrieri come i trecento spartani. Senza allontanarsi troppo da casa i Firewind raggiungono così il risultato senza prendersi alcun rischio, immersi in questa nuova narrazione metallara della seconda guerra persiana.
Luca “Montsteen” Montini