Recensione: Imperial
«Life isn’t just to survive»
(da “Antagonist”)
Se ci è concesso iniziare facendo un po’ di sana e costruttiva autocritica, va detto che i recensori hanno il brutto vizio di etichettare, incasellare un gruppo per la narcisistica esigenza di dare indicazioni di massima sulle coordinate musicali della band che si sta analizzando. Vogliamo forse dimostrare di essere profondi conoscitori di musica sciorinando gruppi a più non posso? Sta di fatto che di rado si pensa alla conseguenza di confondere l’ascoltatore, che si aspetta di trovare qualcosa che poi magari non si rivela aderente alla realtà dei fatti.
Questa introduzione è doverosa, perché leggendo in Rete riguardo all’ultimo disco dei Soen si possono trovare improbabili paragoni. Intanto i più li accostano ai Tool, definendoli quasi una tribute band derivativa; i primi album in effetti potevano avere in comune quella ricerca e quell’ecletticità tipiche della band californiana, ma essere definiti cloni e tutt’altra cosa. I Soen vengono accostati anche a nomi come Dark Tranquillity, Ihsahn, i nuovi Opeth, i Meshuggah e i Katatonia, in pratica i una mescidanza musicale senza precisa identità… Ma non è affatto così! I Soen sono una fantastica realtà della scena progressive, quella moderna di più ampio respiro, con il loro stile e la loro caratteristica unica e distinguibile. Hanno pubblicato il loro quinto album in appena otto anni di carriera, creando e consolidando un sound distintivo e peculiare che fonde e alterna in modo superlativo passaggi pesanti, emotivi, melodici e raffinati, riuscendo al contempo a rimanere coerente per tutta la durata dell’album senza sfociare in eccessive manifestazioni auto-proclamatrici. Con Imperial i Soen continuano, infatti, lungo le coordinate seguite nel precedente meraviglioso Lotus; anche la formazione rimane quasi invariata ad eccezione di Oleksii Kobel che si occupa egregiamente delle 4 corde prendendo il posto dell’uscente Stenberg.
Ma cosa ci propongono esattamente i Soen con Imperial? Cominciamo col dire che non è propriamente un concept, ma essendo figlio della pandemia ha un filo conduttore che lega e cementa la tracklist: la condizione umana. Il Covid-19 ha stravolto il mondo e con esso il nostro modo di relazionarci con gli altri andando a stroncare letteralmente il nostro essere per natura “animali sociali”. Con Imperial quindi la band di Ekelöf esegue una disamina per certi versi poetica, pesante ma anche emotiva della nostra esistenza; nelle otto canzoni proposte, i Soen concepiscono testi riflessivi, ma al contempo provocatori, così come la musica che si diffonde prima granitica, poi leggera e armoniosa per tornare inquietante e intricata, e ancora ariosa e ricca di melodia. Questo ossimoro musicale fa mutare umore continuamente e allo stesso tempo genera un’altalena meravigliosa di sentimenti durante l’ascolto di ogni brano.
L’inizio è letteralmente roboante con “Lumerian”, brano massiccio e potente che descrive la razza umanoide dei Lumeriani la cui caratteristica è quella di essere fortemente empatici tra loro, ma non con altre specie con cui non riescono a stringere alcun tipo di legame. La struttura è molto lineare, proprio come nella seguente “Decevier”, brano con riff rocciosi sulla strofa dettati dalla chitarra di Ford, tagliente come una motosega e supportata da un fantastico Lopez, spesso in primo piano, che picchia le pelli come se fosse nella forgia di Efesto. Si rallenta leggermente con la più cadenzata “Monarch”, che presenta con una sirena d’allarme, cui segue una rullata portentosa di batteria, quasi a voler metterci in guardia da un pericolo imminente. La traccia parla delle aspettative che riponiamo negli esseri umani e di come le emozioni in realtà siano viste come una debolezza. Davvero una traccia meravigliosa che enfatizza la bellissima voce profonda di Joel Ekelöf, in questo brano particolarmente a suo agio soprattutto sugli intrecci vocali sul finire del pezzo.
Dobbiamo un attimo riposare e rilassarci per riprendere fiato ed i Soen lo sanno benissimo; è infatti il momento di una struggente ballad, “Illusion” con un’atmosfera suggestiva che fa letteralmente risplendere la voce di Ekelöf che qui raggiunge di nuovo vette altissime. La chitarra acustica è morbida e avvolgente, e Ford ci regala a metà canzone un assolo commovente che ci accompagna prendendoci per mano sino alla chiusura del pezzo. Si riparte possenti e pesanti con “Antagonist” che rimane fedele ai primi due brani come struttura, ma non per questo si ha una sensazione di déjà-vu, soprattutto per l’egregio lavoro fatto dalle chitarre. I Soen decidono di rallentare nuovamente con la successiva “Modesty” sincopata ed eterea che inverte la tendenza rimanendo acustica e morbida nella strofa per poi appesantirsi ed esplodere nel refrain. Ma non c’è tempo per rilassarsi, tuttavia, perché si riprende a picchiare duro con “Dissident” dove torna a farsi sentire l’instancabile ex-Opeth alla batteria totalmente incollata alle linee di basso di Kobel e con la doppia cassa che guida magistralmente un brano davvero trascinante. Nell’epilogo con “Fortune” la band svedese regala un altro brano lento ma intenso e tormentoso. Ci donano un messaggio positivo e di speranza (insolito per i Soen in effetti). Da sottolineare, per non dimenticare proprio nessuno, la bella prova di Lars Åhlund che accompagna al pianoforte un forse troppo scolastico Ekelöf a metà del brano, mentre con un intenso synth punta verso la chiusura, intrecciandosi abilmente con la sempre evocativa chitarra di Ford.
È tramontato Imperial. Silenzio…. Come ci si sente alla fine del viaggio sonoro? Arricchiti, come dopo l’ascolto di un gran bel disco che rimarrà incollato nella memoria per molto tempo. I Soen sono una band di enorme talento, maturi nel sound e nei loro meravigliosi testi, riescono a intrecciare come pochi potenza e melodia creando un sound ricco e pregno di sentimento. Che non si parli più di band derivativa. Grazie.