Recensione: In Amber

Di Stefano Usardi - 22 Dicembre 2019 - 8:32
In Amber
Etichetta: Mighty Music
Genere: Hard Rock 
Anno: 2019
Nazione:
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69

Per i cultori del metallo più oscuro degli anni ’80 incappare nel nome di Michael Denner non dovrebbe essere una novità. Storico chitarrista di Mercyful Fate prima e del progetto solista di King Diamond poi, l’eclettico chitarrista si è poi cimentato in numerosi progetti paralleli la cui ultima incarnazione è rappresentata, appunto, da questi Denner’s Inferno.
In Amber” rappresenta un perfetto sunto delle origini del Denner-pensiero: nelle dieci tracce che lo compongono, infatti, sono racchiuse tutte le caratteristiche preferite del chitarrista danese, mescolate in quello che, a voler ben vedere, si potrebbe tranquillamente definire come un lavoro divulgativo, nostalgico, in cui le canzoni originali sono alternate ad altrettante cover (per un elenco più puntuale date un’occhiata alla track-list nella scheda dell’album, la trovate qui sopra) risalenti agli anni ’70. Ciò trasforma di fatto “In Amber” in un carosello musicale in cui coesistono heavy, psichedelia, doom, hard rock e blues: un concentrato di musica sbucata dal passato, come appena liberata dall’ambra in cui era rimasta cristallizzata per tanto tempo, che si fonde con brani moderni ma dall’intenso mood retrò.

Com’era lecito aspettarsi, la chitarra di Denner occupa un posto di primo piano in ogni traccia, tessendo le trame portanti dell’album ma senza per questo risultare ingombrante. La sua sei corde, infatti, si intreccia bene al tessuto sonoro del gruppo, creando anche un ottimo amalgama con la voce limpida e calda di Chandler, a suo agio sia quando c’è da gigioneggiare che quando si deve fare sul serio con toni più solenni ed epicheggianti. Ecco allora che all’hard rock magniloquente ed istrionico di “Matriarch”, in cui lo spettro di Rainbow e Deep Purple aleggia su ogni riff, segue il ben più sulfureo doom di “Fountain of Grace”, vera colata di metallo fuso e rimbombante che tanto richiama alla mente i grandi del genere. Ma non finisce qui, perché con la successiva “Up and On” si torna a macinare melodie possenti e solari, intessendo un heavy rock trionfale venato di guardinghe inflessioni più blueseggianti che, poi, prendono definitivamente il sopravvento con “Sometimes”. Qui la traccia si carica di una spiccata sinuosità, serpeggiando tra passaggi lenti e sensuali ed improvvisi irrobustimenti. Il rock languido di “Taxman (mr. Thief)”, invece, pare insinuarsi nella scaletta per diffondervi un certo relax e far abbassare la guardia all’ascoltatore in vista della successiva “Veins of the Night”, in cui chitarre ruvide si riappropriano della scena facendo risalire la tensione. La voce diventa più arcigna per affiancarsi ai riff raglianti e alle melodie tese che solo durante il ritornello concedono un po’ d’aria. Si passa ora a “Run for Cover”, il cui andamento scandito torna a caricarsi di venature hard blues. L’intermezzo centrale più guardingo conduce pian piano al finale nuovamente sinuoso che sfuma nel mood quasi progressive di “Pearls on a String”, introdotta da un arpeggio soffuso e caratterizzata da lievi ma continui cambi d’umore. La canzone procede così, stiracchiandosi pigramente tra un fraseggio che profuma di maestà e lievi tocchi circospetti, salvo poi alzare i giri del motore durante l’assolo e il finale. Una chitarra smargiassa introduce “Loser”, canzone, anche qui, molto bluesy, in cui la carica strafottente degli anni ’70 si affianca a cori dal profumo quasi gospel. Chiude l’album la breve “Castrum Doloris”, outro strumentale in cui la chitarra di Denner viene lasciata libera di sfogarsi con il classico assolo di fine concerto per porre il suo personale sigillo a un album strano, in cui la componente nostalgica gioca una parte importante ma non fondamentale. Le canzoni originali sono solide, dirette e semplici ma non per questo banali, però manca sempre il passaggio finale che faccia fare il vero salto di qualità. In aggiunta, il suo voler mettere mille cose nello stesso calderone potrebbe portare un orecchio poco attento a trovare “In Amber” un po’ troppo dispersivo – anche se una tale varietà potrebbe essere dettata da una precisa volontà, dato il carattere dell’album – rischiando così di non fargli trovare una collocazione vera e propria se non tra i fan del rock degli anni ‘70.

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