Recensione: In Contact
Non so bene che fine abbiano fatto i Karnivool, sarebbe ora che pubblicassero qualcosa di nuovo. Quello che so, in ogni caso è che il vuoto lasciato da loro nel cuore di ogni amante del neoprogmetal (o come volete chiamarlo), attualmente è colmato a meraviglia dai Caligula’s Horse. Non che si possano fare parallelismi eccessivamente definiti tra le due band a livello sonoro (ma a livello geografico sì, entrambe le formazioni sono australiane). Non si può nemmeno dire che i Caligula’s Horse, formatisi dopo, siano un gruppo che si ispira ai Karnivool. Purtuttavia l’abilità di creare grandissime melodie, di mescolare dolcezza e violenza, ma soprattutto di far sembrare semplice il difficile (anello debole dell’80% delle formazioni prog) fa scattare il parallelismo in maniera piuttosto naturale. Purtuttavia “Bloom”, terzo nato dei Caligula’s Horse ricordava molto, nel suo connubio di stile, melodia e versatilità, l’inarrivabile “Themata”, pur rivelandosi, se possibile, anche di più facile assimilazione.
E ora il quintetto torna, a due anni di distanza, con “In contact”, quarto nato in una discografia di altissimo livello e che, per tanto, suscita non poche aspettative. Aspettative che, diciamolo subito, non disattendono le aspettative. 9 canzoni, più un recitato, che sono solo e soltanto conferme. È piuttosto superfluo tentare di fare giri di parole e di tirarla per le lunghe, il gruppo australiano conferma quanto di buono fatto nelle sue precedenti uscite. A cominciare dall’imponente intro “Dream the Dead”, che unisce le complesse strutture del prog a ritornelli e strofe di facile assimilazione. Un altalena di contrasti tra arpeggi minimali e riff rocciosi su cui si staglia meravigliosamente la voce di Jim Grey a dare profondità e drammaticità al tutto.
Le buone impressioni erano già state anticipate dalla nervosa “Will’s song”, qui posta in seconda posizione e presentata due mesi addietro come singolo apripista. Continuano con il ‘soft prog’ (lo chiamo così) della dolcissima “The Hands are the hardest”, un pezzo che, per target di pubblico, può competere con “Earthrise” degli Haken e del breve interludio acustico “Love conquers all”. Melodia e drammaticità si fondono nell’altro singolo estratto, “Songs to no one” (che secondo me è un nuovo omaggio a Jeff Buckley). Il livello cala un po’ con i due brani effettivamente più tecnici dell’album “Fill my heart” e “The Cannon’s Mouth”, gli unici che in effetti necessitano di ascolti approfonditi per essere effettivamente apprezzati. Il tutto è chiuso dai 15 minuti di “Graves” che, come spesso accade nel prog, funge da summa del disco e riesce nell’intento distribuendo con naturalezza quanto abbiamo sentito sino ad ora senza diventare ridondante.
Come si è detto, dunque, i Caligula’s horse tornano con l’ennesimo ottimo disco e si confermano una voce di spicco nel coro di band che compongono il nuovo panorama del progressive metal di questi anni duemila, assieme ai già citati Karnivool, agli Haken, ai Tesseract e a un pugno di altre meravigliose band. Davvero, non vale la candela allungare il discorso. Chi non ha ancora sentito “In contact”, sa già cosa vi troverà. E non resterà deluso.