Recensione: In Darkness
«In darkness we shall be reborn… in darkness we shall be reborn… in darkness we shall be reborn…»
Il ritornello di “In Darkness (We Shall Be Reborn)”, opener di “In Darkness”, sesto album dei tedeschi Agathodaimon, condensa a sé un concetto evidentemente caro a essi: la rinascita. Ma, al contrario di ciò che accadde con il precedente lavoro del 2009, “Phoenix”, stavolta pare proprio che l’armata guidata dal chitarrista-cantante Sathonys abbia rivolto davvero lo sguardo agli esordi. Cioè a quel symphonic black metal che ne caratterizzò lo stile dal 1995 in poi, confluendo in toto nell’Opera Prima “Blacken The Angel” (1998). L’ensemble teutonico ha dovuto prendersi una pausa, dopo “Phoenix”, per aggiustare la line-up e specificamente per assegnare un posto fisso al chitarrista Thilo Feucht, occasionalmente presente dal 2001. E, quindi, può essere che questo ritorno alle sonorità primigenie sia (anche) dovuto a questo importante assestamento.
Sonorità arcaiche che, in ogni caso, non sono state del tutto depurate da qualche contaminazione gothic – più evidenti nei fini orpelli cesellati dalle sei corde – evidentemente dure a resistere ma che, più facilmente, fanno parte dell’irrinunciabile bagaglio culturale di Sathonys. Il suono delle chitarre, inoltre, seppure ‘sporco’, è potente, giacché la produzione di Kristian “Kohle” Kohlmannslehner ai Kohlekeller Studio ha trovato il giusto compromesso, in ciò (“I’ve Risen”). Mantenendo, pertanto, la misantropica aggressività del black ortodosso ma tenendosi al contempo lontano da certi caotici rifferama tipici del black più estremo; anche se Manuel Steitz rivolta i ritmi con asfittiche bordate di blast-beats (“In Darkness (We Shall Be Reborn)”). Ash, infine, taglia il sound con un disperato, annichilente screaming che, più di tutto e tutti, accumuna definitivamente “In Darkness” ai principi cardine del symphonic, ma – si badi bene – di quello ‘cattivo’ e riottoso. Con un esito finale che premia il combo di Mainz per via di un sound abbastanza originale, non stravolgente ma comunque identificativo di una proposta piuttosto ricca di carattere e, soprattutto, riconoscibile fra tante con una certa facilità. Ultimo ma non ultimo, la bontà degli inserimenti acustici (“Favourite Sin”) che, come un’oasi di buia tranquillità, intervallano i numerosi assalti all’arma bianca della formazione mitteleuropea.
Proprio “Favourite Sin” segna con decisione la concreta capacità degli Agathodaimon di dare seguito a un talento melodico non indifferente grazie a un ritornello etereo e trasognante. La precisa sovrapposizione delle linee vocali di Ash e Sathonys è peraltro azzeccata nella sua discrasia fra acre aggressività (Ash) e morbida dolcezza (Sathonys). Contradditorietà che timbra a fuoco “Oceans Of Black” – song stupenda – , ove il disperato, agghiacciante scream di Ash sorvola velocemente su melodie da sogno, approfondendone la penetrazione nell’anima. Un’emotività musicale che via via assume un significato più intenso, quando “Somewhere Somewhen” ritma languidamente il battuto del cuore per raggiungere un chorus struggente e malinconico, ricco di lirismo, identificativo di un brano di gran livello artistico. “Dusk Of An Infinite Shade (Amurg)”, e gli Emperor fanno capolino da “In Darkness”. Tastiere a tappeto che rievocano l’orrore cosmico e blast-beats a cascata, sovrastati da quella che si rivela uno dei punti vincenti del disco: l’interpretazione di Ash. La mesta e leggendaria “Höllenfahrt Der Selbsterkenntnis” (i testi sono in inglese, rumeno e tedesco) termina, e bene, un platter che sicuramente non si sarebbe aspettato nessuno in tale magnificenza, dati i confusi precedenti dell’ensemble della Rhineland-Palatinate.
“In Darkness” mostra in definitiva che gli Agathodaimon hanno finalmente trovato, seppur mettendoci diciotto anni, la strada maestra. Che, si spera, verrà percorsa a lungo.
Daniele “dani66” D’Adamo
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