Recensione: In Extremis
Ancora Rogga Johansson. Ancora una volta, immerso in uno dei suoi innumerevoli progetti targati death metal. Stavolta si tratta dei Necrogod, in realtà un duo, che, a distanza di sette anni dalla nascita, dà alle stampe il full-length d’esordio, “In Extremis”.
Cosa spinga il nostro Eroe a seguire le super prolifiche manifestazioni della sua mente è un mistero. Così come è un mistero capire come faccia a passare da una band all’altra conservando lo spirito della band stessa.
Evitando la mera, inutile elencazione delle sue elucubrazioni cerebrali, sterile esercizio che non conduce altro che a nulla, meglio concentrarsi su questi Necrogod i quali, oltre al Nostro – che smanetta un po’ tutta la parte musicale – , presentano tale The Master Butcher alla voce, proveniente dalla Costa Rica. O meglio, ivi residente, giacché al giorno d’oggi è possibile realizzare un disco senza che i componenti del gruppo si siano mai incontrati di persona.
Fattispecie già di per sé assai penalizzante poiché, almeno a parere dello scriba, è solo con la conoscenza personale, con lo scambio dei reciproci sudori, con lo suonare assieme in una sala angusta e rovente, che si riesce a concretizzare al meglio il concetto di gruppo. Soprattutto in un genere fisico come il metal estremo, la cui energia sprigionata dal provare e riprovare i brani suonandosi addosso, assume i giusti valori, la giusta quantità di watt sì da sfondare i timpani.
Così non è, in questo caso, ragion per cui bisogna accontentarsi di quel che passa il convento. Che, è bene puntualizzarlo subito, è davvero poco. L’agghiacciante drum machine ci mette molto del suo facendo cadere le braccia sin dall’opener-track ‘Bringers of Blasphemy’. La buona volontà non si discute, tuttavia una sezione ritmica siffatta, comprensiva del basso manovrato da Johansson, ha ben poco di professionale; risultando monotona, fiacca, priva di spinta anche quando i BPM oltrepassano la barriera dei blast-beats.
Anche The Master Butcher mostra di non aver molta dimestichezza nell’affrontare le linee vocali, imperniate su un roco growling, stentoreo, che non sarebbe poi male se non ci fosse una continua emanazione di versi, grugniti e varie amenità del genere. Anche in questo caso, una prestazione dilettantesca che, però, non fa danni più di tanto, considerato che l’intonazione, perlomeno, c’è. Il legame con la parte musicale, cioè, è di discreta fattura e, alla fine, salva a malapena capra e cavoli.
Come al solito Rogga crea un riffing più che buono, in linea con la tradizione del metallo della morte. Malgrado anch’egli si mantenga al di sotto del suo standard abituale, la sequenza di accordi assume un sound zanzaresco che non è poi così male.
Apprezzabile, anche, il tentativo di diversificare le canzoni. Si percepisce che a monte ci sia questa volontà. La quale, purtroppo per i due loschi figuri, si scioglie come neve al sole una volta messa su rigo musicale. I trentaquattro minuti del platter scorrono via fluidi, sì, questo va scritto, ma non lasciano traccia di sé. Anche a passare e ripassare il percorso che unisce la ridetta ‘Bringers of Blasphemy’ alla closing-track ‘Transcending to Persist’, si resta con un pugno di sabbia in mano. Con poco o niente, per dirla meglio.
A questo punto è spontaneo chiedersi che senso abbiano sia i Necrogod, sia “In Extremis”; troppo vacui in tutto e per tutto per non affondare in un’inopinata mediocrità. Rogga Johansson ha dimostrato di saper fare molto di meglio ma qui, davvero, ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare.
Imbarazzanti.
Daniele “dani66” D’Adamo