Recensione: In His Granite Realm
Terzo album per gli statunitensi Beorn’s Hall, che con questo “In His Granite Realm” donano un successore a “Estuary” dopo un solo anno di attesa. Autori di un black metal piuttosto flemmatico, dilatato e solenne, screziato di tanto in tanto di sofferta epicità e dall’intenso retrogusto viking, i nostri digeriscono con una certa abilità la lezione di gruppi come Bathory (sicuramente tra i numi tutelari del duo: non per nulla nella versione fisica dell’album è presente una cover di “Foreverdark Woods”, dal gioiello “Nordland I”), Windir, Falkenbach e Summoning; il risultato è un album gelido, atmosferico, nero e disperato ma che, anziché cedere alla violenza sonora fine a se stessa, gioca con atmosfere nebbiose per raggiungere l’obiettivo attraverso un’altra via. Le sfuriate tipiche del black ci sono eccome, ma anziché dominare la scena si dedicano a sporadiche comparsate in base alle necessità contingenti, lasciando che il tono complessivo delle canzoni sia il risultato di una paziente opera di stratificazione di vari elementi che, fusi insieme, donano a “In His Granite Realm” il suo mood così sfocato e intrigante. Capita così che alle sunnominate sfuriate si affianchino passaggi compassati, dal tocco quasi psichedelico, e serpeggianti fraseggi di tastiera dal sapore flautato, mentre una voce straniante ulula disperata la sua impotenza sopra un percussionismo esasperato, insistente, ipnotico. Di colpo le melodie cambiano registro, intervallando arpeggi epici e orgogliosi a giri di basso maligni, intimidatori, seguiti a loro volta da una voce solenne e determinata che si incastona su un tappeto di riff dall’intenso sapore di heavy rock. La componente viking è sempre presente, seppur molto spesso vada cercata sotto la superficie, in un continuo e incessante lavorio che fa il paio con la costante ricerca, da parte dei nostri americani, di soluzioni emotivamente impattanti. Ogni traccia di “In His Granite Realm”, infatti, è pervasa da un’aura indistinta, sinistra e al tempo stesso fiera, che sfrutta la strana scansione dell’album – suddiviso in due coppie di tracce lunghe dai dieci minuti in su intervallate da una coppia di brani decisamente più corti, tra l’altro anche abbastanza avulsi dal contesto delle quattro suite – per fluire da uno stato d’animo all’altro, fagocitando tutta una serie di elementi che, sulla carta, non avrebbero nulla a che spartire con gli altri ma che al momento della resa dei conti risultano tutt’altro che mal appaiati. L’unico appunto che mi sentirei di fare riguarda la resa vocale: nonostante, durante l’ascolto di “In His Granite Realm” ce ne sia davvero per tutti i gusti (si passa dal growl, allo scream, alla voce pulita anche nello spazio della stessa canzone), ho trovato in alcuni momenti la voce di Vulcan troppo indigesta, al punto da stonare con la parte strumentale e andando così a inficiare il risultato complessivo.
L’album si apre col cupo suono di un corno, seguito da un arpeggio rilassato. In un attimo, un’atmosfera solenne e gelida si appropria di “Distant Torches – Baldr’s Theme”, in cui le urla stranianti di Vulcan si fanno largo su un tappeto sonoro scandito, inesorabile ma non privo di un certo fascino. Il pathos arriva di colpo, appropriandosi della scena con lenta ripetitività mentre una voce pulita e a tratti sgraziata tiene tutti in allarme dalle retrovie. Dopo l’assolo si torna a mescolare solennità e disagio, con riff folk coronati dalla solita voce lancinante che aprono la strada al secondo assolo della canzone, che a sua volta accompagna l’ascoltatore al finale. “Old Men of the Mountain” parte languida, distendendosi su un morbido arpeggio di chitarra acustica e flauto prima di esplodere in un’orgia di epicità plumbea ed imponente. L’irrobustimento di matrice black sferza il pezzo pur mantenendo la melodia portante sullo sfondo, prima di tornare all’epica solenne e scandita; di nuovo, la canzone accelera per indulgere in una raffica di riff neri ma solenni al tempo stesso, salvo poi cedere il passo ad un arpeggio apparentemente fuori posto che, però, apre ad una nuova sezione dall’intenso profumo epic. La traccia a questo punto si fa frenetica, scheggiata di malignità dai cori, stemperando la sua carica grazie a fraseggi più compassati che, dopo un altro breve intermezzo velatamente minaccioso, conducono di nuovo l’ascoltatore alla melodia epica che costituisce il leitmotiv della traccia. Il finale si tinge di folk, con un arpeggio disteso che spunta da chissà dove e disperde nell’aria il profumo di ballata davanti al fuoco di un bivacco. “Berglmir (the Call from Beyond)” è una breve traccia dall’intenso afflato folk: solo voce, riverberata come se Vulcan stesse cantando sulla sommità di un fiordo, ma nonostante la sua indubbia carica evocativa devo ammettere che non mi ha entusiasmato granché. “To Ride at Midnight” si apre con un arpeggio disteso e brusio di sottofondo che potrebbe benissimo essere quello di una taverna, rapidamente sostituito da una melodia dall’intenso retrogusto di Summoning. Le tastiere tessono melodie medievaleggianti, sorrette però da chitarre tese e un growl arcigno. L’arpeggio acustico apre a una sfuriata black maligna e ripetitiva, che pian piano cede di nuovo terreno a melodie più scandite, solenni e dal taglio vagamente ipnotico, che ci guidano fino alla title track. “In His Granite Realm” si apre con un riff dal profumo folk, seppur appesantito da venature più macabre e sinistre. Lentamente, la traccia introduce elementi più graffianti ed altri quasi trionfali, fino all’impennata maligna della parte centrale. Una melodia inquieta e l’intervento narrato aprono ad una sezione dilatata, disturbante, in cui si incastona un lungo segmento solista rilassato e carico di feeling che ci accompagna per tutta la seconda parte del brano, sfumando poi nel fischio del vento. È ora la volta di “Bronze Age Spellcraft”, traccia strumentale lenta e dal profumo rituale che, con i suoi tre minuti abbondanti, chiude “In His Granite Realm” con la giusta dose di misticismo, ponendo il sigillo su un album intrigante che, al netto di una certa prolissità e un comparto vocale – a volte – un po’ troppo sopra le righe, garantisce un’ora scarsa di musica altamente immersiva, a suo modo solenne e sicuramente meritevole di attenzione.