Recensione: In Our Blood
Redlight: il nome vi evocherà un particolare distretto di Amsterdam, ma più nello specifico quella citata è una vintage drag racing car: la “Red Light Bandit” un modello di Dodge progettata da Ron Butler (ex costruttore della Ford GT-40), premiata “Best Engineered Car” ai Nazionali NHRA del 1970, per via dell’ alleggerimento sostanziale (pari a 3.000 libbre) e l’innovativo sistema a roll-bar rigide che collegava vari componenti del telaio, enfatizzando la triangolazione ed evitando che le sospensioni si legassero. Auto, peraltro, capace di stabilire numerosi record di pista vincendo il campionato NHRA Division VII e The Last Drag Race Lion…
Mark “Kaz” Kasprzyk, voce dietro ai Redlight King prende in prestito il nome da una vecchia auto da competizione del padre e lo dona al suo gruppo, come testamento generazionale.
Lo stesso di cui parla all’ interno del suo quarto album in studio: In Our Blood, che parla di legami di sangue in un senso più esteso, ovvero rivolgendosi a tutti quei “consanguinei” che si accolgono per scelta nella propria esistenza: gli amici e i compagni che ci affiancano durante questo viaggio incredibile e a volte accidentato che è la vita.
Nato vicino ad Hamilton, in Ontario, Kaz durante l’adolescenza, scrive canzoni hip hop, balla la breakdance ed entra a far parte della squadra nazionale canadese di judo, sfiorando le Olimpiadi estive del 2000.
Nei late 90s milita all’ interno di due gruppi fondamentali per porre le fondamenta dell’ attuale band: The Racoons e Kazzer, che lo aiutano a sintetizzare la sua vena rap / hip hop con l’hardrock più puro degli AC/DC.
Un mix letale che si concretizza solo nel 2008 in Redlight King, grazie all’ aiuto del socio di lungo corso Julian Tomarin (chitarra, backing vocals) e successivamente di Brian Weaver (basso) e Mark Goodwin (batteria).
Il successo è pressoché immediato e nel 2011 raggiungono il numero 3 della classifica Billboard Mainstream Rock con “Bullet In My Hand”, versione rivista di “Old Man” di Neil Young.
Diverse canzoni della band vengono inoltre incluse nella produzione di colossal quali: “The Avangers”, “Iron Man 3”, “The Italian Job” e in serie quali “Person of Interest” (CBS) e “Malcolm In The Middle” (Fox), oltre ad essere licenziatari per reti sportive come ESPN, Nascar, NFL, CFL, NHL, NBA e MLB.
“In Our Blood” si distacca però dal mainstream per via della presenza di alcune tracce più sporche come “Raise the dead” o “Paid Off”, un perfetto dopolavoro in grado di scaricare le tensioni accumulate durante la giornata.
Un’ attitudine grintosa evidenziata nell’ arco delle 11 tracce proposte, a partire dallo start esplosivo con un’ adrenalinica dose di chitarra in accelerazione per “Cold Killer”: brano che vi sbatterà prepotentemente nel 2004, anno in cui Bono Vox era intento a rilasciare il singolo “Vertigo” con gli U2. Ritmica motivazionale da workout, grazie al pumping out intensivo di batteria e al rap rock delle parti vocali per un groove di eccezionale fattura, con un basso che si muove eccezionalmente anche in brani come “Eye Of A Hurricane”, in cui ci ricorda come si costruisca un’ efficace loop in grado di girare perfettamente per 3 minuti, con variazioni di velocità e cambi repentini che riescono a farti ciondolare la testa di qui e di là.
La presenza di qualche coro da stadio ben piazzato “In Our Blood” con quegli “ooooh, ooooh, ooooh” che parlano alla collettività, una critica alla classe politica e all’ enorme divisione che essa fomenta, abbinato a parti più personali e riflessive come in “Heavy Heart” che è l’unico vero rallentamento che dà modo alle chitarre di distinguersi in passaggi fulgidi e a Kaz di riprendere fiato, questo album si rivela un prodotto magistralmente arrangiato, non iperprodotto come spesso capita in questi casi, ma in grado di regalare, sventolata la bandiera a scacchi, qualche ottimo momento di sfogo.