Recensione: In Requiem
Premessa: per una volta possiamo lasciare da parte la diatriba sulla
sincerità o meno degli artisti?
È vero, che i Paradise Lost tornino, nel 2007, a sonorità tanto
doomy da ricordare addirittura il periodo di Gothic e Shades
Of God, a volte, è decisamente strano: ma quello che conta è il
risultato, e quello non si discute. Perchè In Requiem è un album
che, pur tra qualche alto e basso, si impone all’ascoltatore come il vero e
proprio ritorno degli inventori del gothic metal, quello vero (non certo quello
trendy tanto in auge negli ultimi anni), quello che una volta era sporco e
sofferto, cupo, romantico e spettrale.
Oggi i Paradise sono una band finalmente del tutto matura, consapevole di
quanto fatto sinora e decisa a non sprecare nulla di un’esperienza tanto
imponente; nemmeno i momenti peggiori, quelli da cui tenersi alla larga. Il
salto su Century Media, a qualche anno dall’infelice parentesi su EMI (ma
quando i gruppi di metal ‘estremo’ si renderanno conto che le major non sono
fatte per loro?), li rivitalizza definitivamente, mostrando quell’ispirazione
che anche album interessanti come Symbol of Life e Paradise
Lost lasciavano intravedere solo a sprazzi. Già in questi due si notava
una netta volontà di tornare al dark con base fortemente metal, ma era comunque
l’intenzione atmosferica a prevalere: vedasi una Prey Nightfall,
capolavoro di Symbol, emblematicamente ridotta nelle parti di
chitarra.
Oggi invece tutto è nuovamente cambiato: la coppia Mackintosh/Aedy è
presente finalmente come dev’essere per un sound come il loro, e – udite udite –
Nick Holmes è tornato alla timbrica aggressiva ma sofferente che aveva
cesellato gioielli come Icon e, soprattutto, l’irraggiungibile Draconian
Times. L’album, diciamolo subito, è tutto di alto livello: e se
livellazione c’è, la si nota comunque in pezzi che superano di gran lunga il
passato recente del combo di Halifax; su questi spiccano poi parentesi
semplicemente splendide, e questo sì non accadeva da tempo. Su tutte va citata
la doom song Praise Lamented Shade, pesantissima, con voci tra One
Second e Draconian, chitarre mai sentite nemmeno per i
dischi precedenti e una sezione ritmica che non scorda comunque le cose più
rock e meno metal del gruppo: il sunto perfetto di cosa potrebbe essere, oggi,
la band inglese.
Non è ovviamente l’unica canzone da incorniciare: si susseguono infatti Requiem,
di nuovo spezzata e possente, tra cori eterei e una voce solista ormai del tutto
versatile, capace quindi di usare tutte le proprie tonalità; Unreachable,
in cui l’elettronica torna a fare capolino, senza però deragliare nell’easy
listening a tutti i costi, ma ricordando piuttosto le cose migliori di One
Second; e soprattutto la ieratica Prelude To Descent, che, fedele
al titolo, evoca discese in abissi oscuri, perlomeno finché non riparte nella
parte più veloce ed agressiva del disco.
Emozioni a pioggia, come non ne capitavano ormai da un po’ troppo: i Paradise
Lost riescono oggi finalmente nell’intento, riscattando periodi persi
inseguendo sonorità estranee e prerogative contrattuali; e soddisfano i palati
di chi vuole spessore, doom, buio con sprazzi di luce e le care, ammuffite
atmosfere della nebbiosa brughiera di Albione. Bentornati.
Alberto Fittarelli
Tracklist:
1. Never For the Damned 05:02
2. Ash & Debris 04:16
3. The Enemy 03:39
4. Praise Lamented Shade 04:02
5. Requiem 04:25
6. Unreachable 03:38
7. Prelude to Descent 04:11
8. Fallen Children 03:38
9. Beneath Black Skies 04:12
10. Sedative God 03:59
11. Your Own Reality 04:02