Recensione: In The Eye Of Death

Di Daniele D'Adamo - 19 Gennaio 2014 - 11:25
In The Eye Of Death
Band: Ruindom
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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72

 

L’amore per l’old school death metal non conosce né tempo né confini, così non è del tutto atipico che una band fondata in Finlandia nel 2008, quindi giovane, professi una passione assoluta per dette arcaiche sonorità. Si tratta dei Ruindom che, con il debut-album “In The Eye Of Death” – alle spalle, solo un EP, “Sinister Calling” (2011) – rimpolpano la folta schiera degli adepti del death d’altri tempi.  

Seguendo il filo del discorso, difatti, quello che salta subito all’orecchio è il sound, rozzo e immediato come quello delle garage-band; proprio per questo capace di immergere con forza e rapidità l’ascoltatore nell’oscuro brodo primordiale in cui galleggiavano, alla fine degli anni ’80, leggende quali Possessed, Morbid Angel e Death.

Oscurità alimentata assai efficacemente da bui inserti acustici e da qualche ritocco di tastiera, quanto basta per ricreare quanto più fedelmente possibile le deviate atmosfere in cui strisciavano i primi adepti del metallo della morte. Con l’imprescindibile flavour heavy, anzi NWHBHM, che prende spunto dai primissimi esperimenti di metal ossianico, individuabili negli Angel Witch di Kevin Heybourne. Anche se si tratta di risalire addirittura al 1978, i Ruindom pare facciano davvero propri dei dettami così lontani (“Perfect World”, “Sordid Price”), quasi persi nelle nebbie del tempo.
 
Queste osservazioni, però, non devono fuorviare il potenziale ascoltatore di “In The Eye Of Death”, lavoro sempre e comunque aggrappato agli stilemi fondamentali del death metal come dimostrano, per esempio, i furibondi blast-beats di “Where The World Is Gone”, nonché gli incomprensibili scempi (da intendersi positivamente) vocali di Antero Hakala; indemoniato nocchiero che si destreggia fra screaming e growling mantenendo costante l’altro livello di una morbosa quanto schizofrenica follia. Pasi Nisula si sobbarca inoltre un lavoro notevole, quale unico chitarrista, ed è proprio lui che imposta il proprio lavoro, ritmico e solista, sulle vestigia dell’heavy di trenta e più anni fa. Per ciò, diventa indispensabile il supporto del basso di Marko Mäkinen, a volte una vera e propria seconda ascia a sei corde il cui taglio ossessivamente metallico, al contrario, è moderno e in linea con i tempi.       

Anche le canzoni, ma non poteva essere altrimenti, sono state elaborate evitando fuorvianti complicazioni. Avvicinandosi qualche volta ai confini che segnano un death un po’ più tecnico (“Demon Call”), il combo di Pirkanmaa non si discosta dal modus operandi che imposta i brani sulla classica struttura delle composizioni discendenti dal rock. Evitando l’utilizzo di armonie varie sì da dare al sound un’anima mortifera e fredda. Con l’unica eccezione della conclusiva title-track, la semisuite “In The Eyes Of Death”. L’incipit lento e cadenzato, sulfureo da irritare occhi e polmoni, precorre la salita ritmica e tonale con una malsana armonia davvero esemplificativa di come il death sia capace di scatenare visioni occulte con la sola forza della musica. Soprattutto, almeno a parere di chi scrive, quando a tener su l’insieme c’è anche il supporto della melodia. Ovviamente dall’umore plumbeo.   
 
Probabilmente “In The Eye Of Death” passerà sostanzialmente inosservato, nella marea che trasporta con sé le migliaia e migliaia di ensemble che si dedicano al death. Un peccato, poiché i Ruidom, pur non toccando il naturale ordine delle cose, sono riusciti a dare un proprio personale contributo, anche se ridotto, alla causa della vecchia scuola.  

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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