Recensione: In the Quiet Road (在寂静的路上)
Nella cultura cinese si sente parlare spesso del vastissimo concetto dello Yin e Yang, degli opposti che includono in sè parte dell’altro, cosa che in un certo senso si può applicare anche nella musica metal. I cinesi Fu Xi (伏羲) – nati nel 2005 – diversamente dai loro perlopiù baldanzosi conterranei Tang Dinasty (唐朝) e Spring And Autumn (春秋) manifestavano un lato spiritualmente malinconico e riflessivo, un temperamento comunque pieno di nerbo, tramutatosi nell’album “In the Quiet Road / 在寂静的路上”(2009).
Già dall’intro – che coincide con il nome della band, indicante uno dei tre mitici sovrani cinesi – veniamo introdotti nella dimensione colta ed a tratti ultraterrena del disco. Si tratta di un pezzo che però, fondamentalmente, si distacca da tutto il resto per essere una sorta di mantra cibernetico attraversato da un throath singing di ispirazione religiosa. Il resto delle tracce si aggira perlopiù su una complessa base post metal e doom dall’aura pacata ma che può contenere in maniera più o meno esplicita sussulti tumultuosi, momenti violenti dal carattere fiero ed abrasivo.
Queste fondamenta sono intessute di una grande varietà di particolari, creati da occasionali echi avantgarde e soprattutto dalle melodie folk cinesi, disegnate sia dai pulsanti strumenti elettrici che dagli strumenti tradizionali – fra cui l’erhu -. Le profonde linee vocali eseguite quasi totalmente in clean – e più raramente in un’acre scream – sono essenziali per caratterizzare l’immaginario locale e sembrano assecondare specialmente il basso. Tra l’altro esse contribuiscono ad espandere di molto un sentimento yin, passivo, ma anche un’atmosfera autunnale e temporalesca, condizione meteo generalmente espressa dalla batteria e dalle percussioni, ma anche dai rumori dei temporali, della pioggia e delle pozzanghere colme d’acqua che si odono sparse qua e là.
Da citare poi soluzioni tecniche ed armonie dal carattere più occidentale, di sensibilità prog-rock ma anche hard&heavy anni ’70, con un occhio per certe cose di Ritchie Blackmore. In questo senso colpisce particolarmente la bellissima “Month of the Red Soul” mentre “South has no End” è fantastica nella sua sognante marzialità scandita da percussioni tradizionali, fraseggi in bilico tra jazz e blues e strumento a fiato spettrale. Il brano presenta tra l’altro uno dei momenti più aggressivi del disco, anche se l’apice della ruvidezza si trova maggiormente nel validissimo “Left Behind“.
La title-track e soprattutto “The Dance” si potrebbero invece definire le canzoni spiritualmente più epiche del lotto, in cui vince indubbiamente quest’ultima, incandescente nella sua turbinosa fierezza. L’outro acustico riprendendo la title-track conclude degnamente il tutto.
“In the Quiet Road” dei Fu Xi sembra incarnare perfettamente un’antico e genuino spirito cinese ed è facile immaginarsi dentro in una delle case dell’epoca sorseggiando un te caldo mentre fuori piove. Un disco dalla produzione semplice, a tratti ovattata ma assai efficace nel valorizzare le canzoni dei Nostri, composte con una personalità ed un’intento decisamente originale. Un disco per il suo genere degno di essere tra i più rappresentativi nella loro Patria e meritevole di considerazione anche oltre ai suoi confini.
Elisa “SoulMysteries” Tonini