Recensione: In The Shadows
E’ passato un buon decennio da quando i Mercyful Fate, una delle band più discusse tra le prime affacciatesi sul panorama Heavy Metal, a causa dei temi trattati dai loro album, inneggianti a diavoli, personaggi oscuri e compagnia, cosa a cui oggi non si fa più tanto caso visto l’abbondanza di band che cantano gli stessi temi, ma non ancora molto diffusa nei primi “eightes”, dicevamo sono passati ormai una decina di anni da quando il mascherato King Diamond compose il primo album di una grande carriera, ovvero “Nuns have no Fun”. Da allora, saltando a destra e sinistra tra Mercyful Fate e la sua band solista, tra patti demoniaci, concept album, concerti con il suo microfono rappresentante un osso e il make up che già gli costò una causa giudiziaria con i Kiss, il Re Diamante aveva già prodotto lavori di un grande spessore artistico, soprattutto per quanto riguarda le atmosfere, e per festeggiare degnamente il decennio di lavoro, mette sul mercato “In The Shadows”.
Musicalmente si tratta del solito ottimo lavoro, la tecnica è la stessa di sempre, no strofe, no ritornelli, eccellente batteria e numerosi assoli delle feroci chitarre di Michael Denner (già presente in Abigail) e di Hank Shermann, mentre la voce di King invece è si buona ma molto meno falsettata del solito. Intendiamoci, il falsetto c’è ancora nei passaggi cruciali delle song, ma il danese usa perlopiù una voce di una tonalità diciamo “normale”, senza però far mancare quei tratti di quasi sacralità nel suo cantato. L’album a livello di liriche si presenta differente dai precedenti “Mercyfules”, infatti non si parla più di diavoli e sabba, ma si ha una specie di Mix tra quello che erano i Mercyful Fate delle orgini e i temi dei concept della band solista del Re Diamante. Eccoci quindi a esplorare le usanze del leggendario Egitto, a ripercorrere il mito del cavaliere senza testa e a vedere le trame della fattucchiera Melissa. Come vedete non c’è un concept vero e proprio, tuttavia sono molte storie differenti aventi come filo conduttore il mistero, l’ombra, la consapevolezza di essere davanti a qualcosa di superiore, cosa che credo renda il titolo “In the Shadows” proprio una scelta legata a questo filo, benchè le singole tracce siano diversissime fra loro. A testimonianza di questo basta prendere la cover ed esaminarla, per vedere che contiene personaggi tratti dalle 10 canzoni dell’album. Una bimba (Melissa?) che fissa nella notte una quercia rinsecchita, mentre nell’aria corrono delle ombre spettrali e sul fondo un uomo a cavallo senza la testa regge una lugubre falce. Tutto quadra. Vista la cover non resta che ascoltare insieme le dieci canzoni di questo davvero pregevole prodotto etichettato Metal Blade (il primo ad essere etichettato sotto questa casa, dopo il divorzio tra King e la sua casa storica, la RoadRunner Records).
La prima song, “Egypt”, parte subito col piede giusto, prima soave ma pronta subito ad esplodere con un eccellente assolo di Hank Shermann, veloce, pulito, al seguito del quale King Diamond innalza una invocazione ad Osiride e Anubis, le divinità dell’oltretomba, per far pesare la sua anima e giudicarla. Bruciante di voglia di sapere se passerà da Aanu, o se verrà condannato, King intona più volte un esplicito “I’m Burning inside, to Know”, sposandosi alla perfezione con la chitarra di un eccellente Denner, per poi invocare una seconda volta Osiride e Anubis, e chiudere con un “Egitto, torna da me, Egitto, senza un inizio, senza una fine”. Una delle più belle tracce dell’album a mio giudizio, e per la musica, e per il testo, e per come viene cantata. Appena più sotto, ma non tanto, sta “The bell witch”, canzone tratta da una storia vera, accaduta nel Tennessee, in un altro secolo, quando una famiglia fu sterminata da una misteriosa identità. Rielaborando prontamente la storia King Diamond ha prodotto questo pezzo, dotato di numerosi eccellenti cambi di ritmo, oscuri, che guidano la mano della Bell witch che a uno a uno cattura e tortura una bimba dodicenne prima e suo padre poi. Molto significativi i passaggi che dicono : “The first one to scream Invisible hands leaving their mark in the dark” riferito a questa entità che cattura la bimba e la stessa bimba che a una domanda riceve la seguente risposta : ” Please tell us who you are “, “I am the air you breathe I am the Bell Witch I am a million years I am the Bell Witch”, passaggi che impreziosiscono un pezzo musicalmente eccellente e sicuramente di atmosfera horrorifica come pochi nell’album. “The old Oak” parte subito un sonoro molto thriller, con un riff accompagnato da una chitarra elettrica su scale molto alte, e sfocia in un pezzo abbastanza veloce, anche se la voce mi pare abbastanza scostata dagli strumenti, voce che narra di una vecchia quercia, maledetta da streghe e demoni, sotto la quale non cresce più nulla. La vecchia quercia ipnotizza chi vi passa vicino, e durante l’autunno ha bisogno di essere nutrita, il sangue deve arrivare alle sue radici, le radici di un malvagio altare. Una delle canzoni con più assoli del disco, ben cinque, che dettano altrettanti cambi di ritmo all’interno del pezzo più lungo dell’album, ben 8 minuti e 53 di malvagità e di paura, nei confronti della vecchia quercia… Quarta traccia di “In the Shadows” è “Shadows”, che si apre con un riff greve, minaccioso, incalzante pur non essendo velocissimo, che ci introduce nel mondo delle ombre, quando il sole si oscura e non vi è la luna, quando i fantasmi passano accanto e non si può far a meno di sperare che tutto finisca, nel profondo della notte ombrosa, passando tra tratti lenti ad assoli sfrenati. A differenza di “The Old Oak”, King Diamond è intonatissimo con il resto della band, il che fa di questa “Shadows” la miglior canzone dopo Egypt, di quelle analizzate finora. Parte in quarta anche “A Gruesome Time”, trattante lo stato d’animo pieno di terrore di un uomo alla vista di qualcosa, qualcosa che lo fa impazzire. Purtroppo la partenza in quarta la reputo un fuoco di paglia, perchè complessivamente la canzone è si decente, ma, almeno da me, non prende molto, sia nel ritmo che nelle note, in quanto le trovo abbastanza scialbe, forse la peggiori dell’album, sebbene la lirica sia ancora una volta geniale. Inverso il discorso per “Thirteehn Invitatios”, la quale lirica, che tratta di una casa isolata su un lago nella quale il diavolo manda 13 inviti a persone che si vendono per la vita eterna, è forse un po’ scontata, ma è supportata da musica di altissimo livello, vero Heavy Metal, pressante ed evocativo, che rende le scene alla perfezione, e rendendo Thirteen sicuramente di un livello molto superiore a Gruesome Time. Straordinarie invece le tre seguenti canzoni, quartultima, terzultima e penultima dell’album, che rispondono a nome di “Room of Golden Air”, “Legend of the Headless Rider” e “Is That you, Melissa”. “Room of the Golden Air” è una canzone strumentale, nella quale Denner e Shermann dimostrano in pieno le loro notevoli capacità di chitarristi, esibendosi in una sequenza di assoli (Denner, Shermann, Denner, Shermann la sequenza), comprendenti riff, scale, fantasia, evocazione, cambi di ritmo, e tecnica notevole, che fanno da degna introduzione alla spettacolare “Legend of The HeadLess Rider”. Ovviamente la canzone parla delle gesta del cavaliere senza testa, portatore di morte, che esce dal suo nascondiglio al suono della campana di mezzanotte per placare la sua sete di vittime. Qui la voce di King non sbaglia un colpo, e la musica è adeguatissima, di pathos, minacciosa, molto Heavy, veloce, di atmosfera certamente non rilassata, e in sostanza scandisce i 7 minuti e 42 della mia canzone preferita del disco, insieme alla opener di questo “in the shadows”. Ma Forse ancora più impressionante di questo cavaliere senza testa risulta essere “Is that you Melissa”. Intro molto barocca, la voce di King che la fa da padrone ricordando Melissa, sempre al suo fianco, anche se assente, voce stupendamente accompagnata da pizziccare di corde chitarra alternati a scariche di metallo infuso, voci grottesche, sfurianti assoli. La canzone segue un tema musicale molto orecchiabile, risulta forse quella che prende di più al primo ascolto, ed è semplicemente una perla dell’album, album che si conclude con “Return of The Vampire…1993”, che vede alla batteria un guest di rilievo, ovvero Lars Ulrich, (quando ancora portava i capelli lunghi, e chi vuol intendere intenda), che dirige il ritmo di questa song lenta, potente, ben strutturata, ma penalizzata da alcuni tratti nella quale la musica risulta essere piuttosto confusa, sebbene in altri sia perfettamente lineare ed armonizzata.
Finisce dunque così , dopo circa 53 minuti, “In The Shadows”, album che si pone come giusta via di mezzo nella carriera dei Mercyful Fates, risultando disco di davvero ottimo livello, anche inferiore a gemme come i primi “Melissa” e “Don’t Break the Oath”, ma ancora su un altro pianeta rispetto agli scialbi “Dead Again” e “9” che sarebbero venuti di lì a qualche anno.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
TrackList :
1) Egypt 4:52
2) The Bell Witch 4:33
3) The Old Oak 8:53
4) Shadows 4:41
5) A Gruesome Time 4:30
6) Thirteen Invitations 5:16
7) Room of Golden Air 3:05
8) Legend of the Headless Rider 7:42
9) Is That You, Melissa 4:37
10) Return of the Vampire.. 1993 5:08