Recensione: In Times
Con Riitiir gli Enslaved avevano dato l’idea di poter intraprendere qualsiasi percorso artistico: si trattava di un disco a dir poco vulcanico, carico di idee e canzoni estremamente complesse e strutturate. Ricordava Mardraum nella sua capacità di fondere black primordiale, prog, elettronica, pure si connotava altresì come un disco estremamente attento alla melodia e al buon gusto. Un disco tanto ricco e carico di sfumature che a volte perdeva il filo, un piccolo difetto che pur tuttavia non poteva minare l’indiscutibile qualità del lavoro. Ora tornano dopo quasi tre anni di attesa – mai i norvegesi ci avevano fatto aspettare così a lungo. Tornano con In Times, disco dall’asrtwork assai evocativo e dalla tracklist che si presta a svariate speculazioni: solamente sei tracce, cinque delle quali sfondano gli otto minuti, e una, la title track, che raggiunge i dieci.
Cosa ci si può aspettare?
Un disco ancora più complesso di Riitiir, diranno i pragmatici. Un nuovo Vikingligr veldi, diranno gli ottimisti. Un nuovo Eld, avevo temuto io in un piccolo anfratto della mia mente malfida – Eld non mi ha mai detto granché.
Parte di tali affermazioni troveranno naturalmente conferma, altre no. Cominciamo dunque da un semplice fatto. In Times è un disco che lascia da parte la sperimentazione, pur mantenendosi in linea con il nuovo corso degli Enslaved. Anzi, è il disco più semplice che i norvegesi abbiano rilasciato da lungo tempo.
Un disco di composizioni estremamente lineari, composizioni che sono autentiche martellate nella testa dell’ascoltatore, decisamente semplici da memorizzare a dispetto di minutaggi invero proibitivi. Soprattutto, In Times è un disco in cui le chitarre di Bjorson ed Isdal spadroneggiano come da lungo tempo non accadeva. Melodie semplici, cambi di ritmo ed atmosfera assai contenuti,maso prattutto, una strepitosa quantità di riff vecchia scuola, semplici, basici, assassini. Ora ipnotici, ora malinconici ora lamellari, ora furibondi, questi riff accompagnano il disco per quasi tutta la sua durata e danno costanti riferimenti all’ascoltatore e fanno di In Times un curioso anello di congiunzione tra Eld, Monumension e Below The Lights, a cui va aggiunta una produzione sobria ma pur tuttavia impensabile per gli anni in cui furono pubblicati detti dischi.
A questo si aggiunga una band ormai molto più matura di allora, una band che in questa sede riesce a controllare quello che è il suo “difetto” storico, vale a dire l’incapacità, alle volte, di coordinare le proprie idee e di far conflagrare in uno stesso album troppe influenze.
Altro elemento fondamentale in quest’album è la massiccia presenza di clean vocals, come già spiegatoci dallo stesso Grutle Kjellson in sede d’intervista. Va detto però che la sinergia tra il frontman storico ed Hedbrand è oramai davvero fenomenale, sicché è difficile seguire l’alternanza tra i due. Ne consegue però una drastica riduzione dei cori in virtù di linee vocali ancora una volta semplici ed accattivanti, che ben riescono ad inserirsi sui riff di chitarra citati in precedenza.
Risulta difficile, ad onor del vero, effettuare annali isingole delle tracce, tanto esse sono omogenee e creano un unicum altrettanto compatto. Rimane però impressa la strofa in clean di Building With Fire, un pezzo estremamente veloce e carico di Groove. Rimane la sincopata Nauthir Bleedin, un pezzo che alterna passaggi riflessivi, momenti al calor bianco ed una certa preminenza di riff prog. Rimane la conclusiva Daylight, in tutto l’unico pezzo che si discosta dalle linee chiave di In Times, una traccia divisa in due parti,con la seconda che vede salire in cattedra toni ancora una volta prog, acidi, lisergici, in una sorta di ascesa verso la luce. Ma risultano discorsi un po’ fuori luogo, ciascuna delle sei composizioni ha ottimi presupposti per conquistare sin dai primi ascolti.
Rimaniamo dunque davanti ad un fatto. In Times è uno dei pochi dischi degli Enslaved a non cambiare le carte in tavola. Non dice nulla che non si sia già sentito, non cambia in maniera sostanziale le coordinate sonore della band norvegese. Ciò nonostante si presenta come uno dei lavori meglio composti degli scandinavi, un disco forse spoglio e compatto, ma proprio per questo anche una delle migliori prove fin qui prodotte da Bjornson e soci. Quanti hanno gridato al miracolo ascoltando Kosmpolis Sud dei Solefald, eleggendolo magari disco dell’anno a scatola chiusa, troveranno in In Times una prova in grado di competere con quella dei folli avanguardisti. E se è vero che tra i due litiganti il terzo gode, sono proprio curioso di scoprire chi sarà in grado, in questo (finora) fenomenale 2015, di mettere insieme un disco capace di surclassare due album che davvero non temono rivali.
Fatevi sotto!