Recensione: Inception
Gli Art Nation arrivano su Frontiers. E non poteva essere altrimenti: verrebbe da pensare che era solo questione di tempo.
L’esperienza del frontman Alexander Strandell con i Crowne era un indizio che lasciava intendere molto bene quali avrebbero potuto essere i passi futuri della band svedese. Insieme agli H.e.a.t, considerata tra le più efficaci e promettenti della scena scandinava degli ultimi lustri.
Il nuovo album “Inception” si presentava con tutte le credenziali per essere accolto con grande favore da chi ha a cuore le sonorità del melodic rock. Alte, molto alte le aspettative, considerato oltretutto il bellissimo secondo cd prodotto proprio dai Crowne ad inizio anno.
Un disco in quella scia: quello che ci si auspicava.
Ci si chiederà perché parliamo all’imperfetto. Per un motivo tangibile: “Inception” è proprio questo, un disco “imperfetto”.
Ci sono buone melodie, produzione da top team, prestazioni di livello atomico (Strandell in particolare, è un alieno). Ma le canzoni sono… come dire…un po’ troppo ordinarie per sperare di ottenere con loro un vero ed autentico “botto”.
Intendiamoci: si ascolta tutto assolutamente volentieri. Ma non c’è mai quella sensazione di “mancanza di respiro” che si prova quando si incappa in un brano che dimostra l’ispirazione e la carica necessarie a segnalare una svolta. Quella che ci si attendeva dagli Art Nation.
L’idea è, insomma, quella di canzoni molto gradevoli ma non troppo lontane da molte delle cose che abbiamo stra-sentito negli ultimi anni. Territori molto frequentati, linee melodiche abusate e poca “pelle d’oca”.
Un disco carino? Ecco, la definizione è calzante. Un disco “carino”, anche molto. Ma non quell’album che ci verrà voglia di ascoltare per un tempo molto lungo.
Buona la prima canzone “Brutal & Beautiful“, un po’ come le successive “The Last of the Burned” e “1001”. Il meglio viene però nella seconda parte del cd. “Break Up”, “Light The Fire“, “Superman” e “Powerless” sono, in effetti, pezzi incisivi ed efficaci, con Strandell a dar prova di avere tre o quattro ugole a disposizione. Tutte inossidabili e da fuoriclasse.
Ma, detto con onestà, non basta: l’emozione rimane a livello epidermico e non va giù nel profondo. Sembra quasi che gli Art Nation abbiano avuto paura di osare e buttare sul pentagramma tutta la creatività dimostrata con i primi due – imperdibili – album. Ed il sospetto che il meglio sia stato lasciato per i Crowne (a tratti è persino complicato distinguere i due progetti) è più di un semplice alito di vento.
Cd caruccio, lo abbiamo già detto. Che si ascolta senza traumi o disappunti.
Ma a conti fatti, probabilmente il full length più debole nella discografia degli Art Nation.
Date le premesse e con la potentissima Frontiers a dar bordone, ci aspettavamo tanto di più…