Recensione: Inception
Piacerà ancora a qualcuno l’AOR?
Intendiamo quello puro ed incontaminato, vecchio stile. Morbido, fatto di romanticismo e toni edulcorati. Con scenari assolati ancorché velati da un sottilissimo retrogusto malinconico…
Ecco quello…
Perché se quel qualcuno, per caso, dovesse leggere queste poche righe, beh, potrà beneficiare di un consiglio alquanto caloroso e disinteressato. Ovvero, ascoltare il prima possibile il disco d’esordio degli Hugo’s Voyage, progetto che potrebbe essere utilizzato per descrivere nel dettaglio proprio tutti quelli che sono i caratteri tipici di questo peculiare modo di fare rock.
Che poi, questo Hugo “intento a viaggiare” è ben lungi dall’essere uno sconosciuto. Hugo Valenti infatti, è ben noto alle cronache melodiche per l’ottima carriera spesa con Valentine, Open Skyz, Ramos e l’omonimo progetto solista. Un artista di valore troppo spesso identificato come clone di Steve Perry (anche se, va detto, la somiglianza fisica e vocale è sempre stata evidentissima) da sempre ossessionato dalla musica e dallo stile dei Journey.
Al punto tale, a volte, da scrivere canzoni paragonabili per qualità a quelle di Neal Schon e Jonathan Cain. Sino, addirittura, a far meglio di loro in più di un frangente.
Nati come cover band proprio dei mitici Journey nel 2005, gli Hugo’s Voyage sono diventati negli anni una delle formazioni di materiale non originale più acclamate degli Stati Uniti. Visti i risultati, la popolarità e la bravura dei musicisti coinvolti, il passo in casa Frontiers è stato quasi banale.
Tanto valeva fargli incidere un disco tutto loro: alla peggio, il risultato sarebbe stato comunque un buon album di rock melodico che non avrebbe sfigurato al fianco di quelli prodotti da Hugo nella sua irreprensibile carriera di melodic maker.
Buona pensata: “Inception“, in effetti, è realmente un bel disco. Morbido e carico di zuccheri, ma dotato di tutta quella poesia quasi ingenua dell’AOR americano tipico dei primi anni ottanta che, sentito oggi, è ancora una delizia per le orecchie.
Anche perché i suoni sono ottimi, non appaiono datati ed il songwriting passa da mani esperte e capaci, quelle di un cantante che in qualsiasi sua manifestazione artistica ha saputo sempre dire qualcosa di estremamente valido.
Passionale, intimista, elegante a tratti quasi delicato e soffuso, “Inception” dialoga con temi oggigiorno quasi anacronistici come quelli dei sentimenti, dell’amore, dell’amicizia e dei legami profondi. Una rarità in un’epoca in cui gli argomenti delle canzoni si sono fatti alquanto più crudi e legati ad un mondo che di rosa non ha più molto.
Il mezzo, come ovvio, è sempre quello di sfruttare gli stilemi classici appartenuti ai beniamini Journey (magari aggiungendo anche una spizzicata di Boston) per confezionare un disco che, alla prova dei fatti, suona persino più credibile e meglio assortito di quello prodotto lo scorso anno proprio dagli ispiratori.
Non troppo prolisso, ultramelodico, bei cori, suoni perfetti e la calda voce di Hugo a dipingere immagini perse nel tempo come un sogno lontano.
Pezzi vincenti? Molti.
Irresistibile l’iniziale “Crazy What Love Can Do”, brano con cui si “viaggia” davvero a ritroso nel tempo. Ma seguendo la scaletta, altrettanto efficaci sono “Don’t Wanna Live Without Your Love”, “Sound of a Broken Heart” e “A Friend Like You”.
AOR a secchiate, veramente DOC, con atmosfere a tratti vicine a quelle del mitico “Raised on Radio” dei già mille volte citati Journey.
Qualche decibel in più con “Going Away”, “I’ll be Around” e “The Voyage” brani “bostoniani” che fanno da contro altare alla conclusiva “When Heaven Makes an Angel”, episodio commovente per la delicatezza con cui si addentra nel tema della perdita di qualcuno di caro.
Trovare capitoli di AOR purissimo capita sempre più di rado. Trovarli di ottima qualità, capaci di non annoiare pur armeggiando con toni rilassati ed eleganti, ancor di più.
“Inception” degli Hugo’s Voyage è questo.
Un gran bel disco in cui il rock declina in un universo fatto di sentimenti, buone sensazioni e grandissima eleganza.
Parole che si usano sempre meno, ma che vorremmo incontrare molto più spesso.