Recensione: Indigo
I Catharsis sono una compagine che ha cambiato molto nel corso della propria carriera, a partire dal genere musicale proposto. Si presentarono come doom metal band, virando, poi, verso un symphonic power. Iniziarono esprimendosi in inglese, decidendo, successivamente, di utilizzare la propria lingua madre: il russo. Anche stilisticamente hanno avuto un’evoluzione, ma questa non necessariamente positiva. Dico questo perché presentandosi al grande pubblico con il full length Dea, dimostrarono, da subito, la capacità di comporre musica complessa e avvincente, nonostante l’album presentasse lecite ingenuità, essendo il primo capitolo. Metteva però in evidenza le potenzialità della formazione russa e, in previsione futura, faceva sperare in lavori sempre più ricercati e articolati. Questo, purtroppo, non è accaduto. Il cambio di lingua portò con sé una semplificazione del sound, delle melodie e dell’approccio in generale, come se i Catharsis avessero cambiato la propria attitudine. Probabilmente, spinti dalla voglia di uscire dalla nicchia e aumentare la fetta di pubblico a cui rivolgersi. Così facendo, di album in album, conquistarono sempre maggior successo, perdendo i fan della prima ora, ma conquistandone di nuovi grazie alla maggiore immediatezza e orecchiabilità.
Ciononostante, Indigo, ultima fatica in studio della band russa e oggetto di questa recensione, ha avuto un cambiamento di rotta non indifferente. Soprattutto per l’approccio e la mentalità con cui è stato affrontato il processo creativo. Forse per nostalgia, forse per necessità, i Catharsis hanno deciso di ritornare agli esordi, coinvolgendo i propri fan sia nella realizzazione che nel processo di composizione, attraverso una sorta di crowdfunding.
Inizialmente, Indigo, potrebbe sembrare un concept album, per poi scoprire che non è esattamente così. Il primo brano è un’introduzione, dall’inequivocabile titolo Indigo Theme, dove la voce di una giovane ragazza ci spiega chi siano i bambini Indigo o Indaco: bimbi caratterizzati da una spiccata spiritualità, intelligenza, empatia, curiosità e forza di volontà. Il nome deriva dall’aura o alone di colore indaco che solitamente circonda questi bambini, ed è visibile soltanto da coloro dotati della necessaria capacità sensoriale. Sostanzialmente il loro numero è inversamente proporzionale alla nostra capacità di autodistruggerci. Ci viene detto, però, che gli Indigo non sono qui per salvarci, ma piuttosto per insegnarci a non autodistruggerci, attraverso l’amore e la spiritualità. La loro stessa presenza rappresenta il fatto che abbiamo ancora una speranza come specie e come società, ma non dobbiamo pensare che spetti a loro o a qualcun altro salvarci. Non sarà così. Possiamo contare solamente su noi stessi. Musicalmente il racconto viene accompagnato da un tema intrecciato fra tastiera, riff heavy e un breve assolo di chitarra.
Come abbiamo accennato sopra, già dal secondo brano, Оставь Наше Небо – Leave Our Sky, non si ha la sensazione di avere tra le mani un vero e proprio concept album, ma non si può nemmeno affermare che non lo sia. Volendo, con un po’ di fantasia, questo brano, come tutti gli altri dell’album, si possono collegare al tema principale: i bambini Indaco. La cosa curiosa è che tale collegamento può anche non essere fatto. Dubito che questa visione fosse voluta, dato che il primo brano è un vero e proprio incipit introduttivo, con tanto di titolo e atmosfere del caso. Tornando alla musica, come già anticipato, la cosa che spicca dai primi brani è la voglia di tornare agli esordi, senza però rinnegare quanto fatto negli ultimi anni, nel bene e nel male. Оставь Наше Небо – Leave Our Sky è il tipico brano d’apertura: corto, easy e con un ritornello orecchiabile. Proseguiamo con Гонки За Мечтой – Racing for the dream, terza traccia dell’album, che racchiude in sé la voglia del ritorno alle origini. È un brano con una struttura più complessa, richiami neoclassici, tastiera a tutto spiano e assoli di chitarra senza riserva alcuna. Tocca poi a Не Зарекайся – Do not promise che non si discosta molto da quanto espresso con la precedente traccia. Il protagonista indiscusso è il pianoforte, con richiami barocchi, un ritmo incalzante e azzeccato, con un ritornello appassionato e non banale. Non manca un breve ma efficace assolo di chitarra. Insomma, in poco più di tre minuti c’è tutto ciò che ci si aspetta da un buon brano power. Dopo questo impeto musicale, i ritmi rallentano e incontriamo la prima ballata dell’album: Острова Во Сне – Islands In The Dream. Da sottolineare la presenza dell’orchestra che, oltre a riempire il sound del brano, simbolicamente riempie il sound dei Catharsis stessi che, così facendo, amplificano la propria musica esplorando nuovi orizzonti. Ottima ballad. Спарта (Сон Из Прошлого)- Sparta (Dream Of The Past) ci accoglie con la delicata melodia del flauto per lasciare poi il posto a un potente e bellissimo muro di suono, senza dimenticare la melodia e la delicatezza introduttiva, con il flauto che riemerge più volte nel corso della canzone, deliziando con la sua eleganza. Arriviamo così al pezzo più lungo e complesso dell’intero album, nonché il più rappresentativo, sia per il titolo, Дитя Штормов – Child of the Storms, che per la musica proposta. Un vero ritorno al passato in cui i Catharsis rispolverano una ricercata melanconia, persa nel corso degli anni. Una canzone valorizzata dal bellissimo contributo di Julianna Savcenko al microfono, assoli di chitarra dal sapore neoclassico e un’ottima tastiera in sottofondo. Dopo tanta grazia, arriva però il brano più controverso di quest’ultima fatica della band russa. Si tratta di Наш Рок – Our Rock che avrebbe dovuto essere un tributo al genere da Noi tanto amato, ma in cui qualcosa sembra essere andato storto. Oltre alla semplicità strutturale, il brano risulta anonimo, scontato e, come se non bastasse, anche il testo solleva dei dubbi
il nostro Rock, tuo e mio, semplice e banale ma è sempre il Nostro Rock
detto proprio da loro, che nel corso degli anni sono risultati sempre più semplici e banali, perdendo le strutture ricercate degli esordi. Живущий По Солнцу – Living By the Sun cambia nuovamente le sonorità, rialzando leggermente l’asticella, risultando un brano gradevole che si alterna tra mid-tempo e tipiche cavalcate power. Decisamente più ispirato rispetto al brano precedente, ma un po’ sottotono se consideriamo il resto del platter. Il disco si chiude con Дорога Грез – Road of Dreams, una ballata che sembra una vera e propria coda, volendo forse rievocare, almeno nel finale, l’impronta del concept album. La traccia scorre morbida e piacevole, tanto che chiudendo gli occhi è facile immaginare lo scorrere dei classici titoli di coda. Canzone ad hoc quindi, ma presa separatamente risulta una mediocre ballad che non riesce a risollevare la parte finale dell’album, decisamente sottotono.
Tirando le somme, l’ultima fatica dei Catharsis solleva sentimenti contrastanti. Chi conosce la band dai suoi primi anni di attività, sarà ben felice di notare la voglia di riproporre le sonorità degli esordi, ma, allo stesso tempo, potrebbe storcere il naso perché il sestetto no ha osato abbastanza. Per chi invece conoscesse solo ora la band Russa, si ritroverebbe tra le mani un buon album, con un’ottima produzione, che potrebbe conquistare l’ascoltatore grazie ai suoi morbidi riff e le dolci melodie, con sfumature che sanno di barocco e neoclassicismo. La perdita di ispirazione negli ultimi tre brani è la critica maggiore che mi sento di esprimere al lavoro intero. Lasciando a Indigo il compito di proseguire la “ripresa” del gruppo moscovita, invito i nuovi fan che hanno trovato interessante questo lavoro, a rivolgersi ai primi album, Dea, Imago e Wings, per ampliare e approfondire il sound di questi pionieri del symphonic power metal made in Russia.
Vladimir Sajin