Recensione: Infernus
Giunge direttamente dall’Inferno il sesto album dei Campioni statunitensi Hate Eternal. “Infernus”, per l’appunto. Un inferno dal quale Erik Rutan (ex-Alas, ex-Morbid Angel, ex-Ripping Corpse) sembra definitivamente uscito. Paradossalmente, cioè, “Infernus” potrebbe rappresentare il punto di partenza per la rinascita di Rutan, artista dalle potenzialità tecnico/artistiche sterminate.
Già “Phoenix Amongst The Ashes”, nel 2011, aveva dato un segno, per ciò. Ora, con “Infernus”, gli Hate Eternal si sono messi davvero e inconfutabilmente a fare sul serio. Un solo avvicendamento: Chason Westmoreland (Burning The Masses, Evade The Swarm, ex-Oceano) dietro alle pelli al posto di Jade Simonetto. Con J. Hrubovcak (J.J. Hrubovcak, Randall Flagg, Divine Rapture, ex-Mourning) nella sua posizione al basso e al secondo microfono.
Hate Eternal.
Un nome da cui non si può prescindere, nel panorama del death metal mondiale. Anzi, di più. Un punto di riferimento assoluto relativamente allo stato dell’arte, nel 2015, del death metal. Death metal e basta. Versione integra e solida, nella sua accezione di genere-madre. Molta parte della critica li accumuna alla Florida, come esemplificativi di uno stile lì nato e cresciuto, e che ha partorito act immensi (Death, Obituary, Morbid Angel). A parere di chi scrive, però, così facendo si comprime il loro valore reale, tale da rendere la band stessa punto di riferimento storico non solo per il summenzionato Stato americano, bensì per l’intero Pianeta.
Rutan e i suoi due compagni sono riusciti a condensare in soli quarantasei minuti una ‘quantità di musica’ esorbitante con perfetta perizia esecutiva. Una forza trainante così ‘forte’, potente, possente, che non può generarsi in altri luoghi che non siano le anime e le menti dei musicisti. È quel ‘valore aggiunto’ invisibile, apparentemente inindividuabile ma che, una volta espresso, segna il confine fra i ‘normali’ e i ‘super’. Quelli, cioè, che posseggono il leggendario ‘quel qualcosa in più’ tale da sopraelevarli rispetto alla massa. Massa che, in questo specifico campo, è tutt’altro che sprovveduta.
Il riffing di Rutan assume a sé moltissimi echi di chitarristi che hanno dato tutto, alla causa del death (e del trhash), facendone un unico metro di paragone per il death metal. Sì, perché la vera forza degli Hate Eternal è questa. Pur essendo ai massimi livelli della tecnica strumentale, cioè che esce fuori dalle loro mani non è (e si sottolinea ‘non è’) né technical death metal, né tantomeno brutal death metal. È death metal. Punto e basta. Ed è quello che, a metà della seconda decade del terzo millennio, deve fungere da archetipo per le generazioni che verranno, e che vorranno cimentarsi con quella foggia musicale cominciata trent’anni fa con Possessed, Morbid Angel e Death.
L’evidente ‘serenità’ di Rutan si percepisce nelle song in maniera quasi insolita. Song complicate, a volte astruse, sempre e costantemente indigeribili per la loro graniticità. Eppure, ‘piacevoli’ (cfr. “Infernus”), sciolte e abbarbicate agli stilemi dettati da Rutan. Il tutto, immerso sino a soffocare nel sempiterno, mostruoso muro di blast-beats alimentato dalla propulsione infinita di Westmoreland. Come dimostra l’inumano attacco “Locust Swarm”, opener devastatrice. Ove, tornando al concetto espresso un po’ più su, si percepisce al volo e, soprattutto, a pelle, la distanza esistente fra gli Hate Eternal e il Resto del Mondo.
Una distanza, ora come ora, incolmabile.
Daniele D’Adamo