Recensione: Infinite Mortality

Di Daniele D'Adamo - 13 Aprile 2024 - 11:00
Infinite Mortality
70

Terzo album in carriera per i Replicant, fra i migliori interpreti del cosiddetto dissonant death metal. “Infinite Mortality” giunge a tre anni di distanza da “Malignant Reality”, con che garantendo una certa continuità discografica che, come in un allenamento, non può che far bene a chi lo pratica.

Dissonant death metal, s’è detto. Certo, i generi e sotto generi sono spesso arbitrio di chi ne scrive, risultando a volte fuorvianti da ciò che, in realtà, vorrebbero puntualizzare. In questo caso, invece, la definizione è azzeccata poiché nell’LP non esiste nemmeno un secondo in cui esista l’esecrata parolina magica: melodia.

Il che costringe i Nostri a un duro lavoro di scrittura delle partiture musicali per non rendere il lavoro inascoltabile o, peggio, senza senso. Dissonaze, così, a caso, per dare alla luce un prodotto comunque complicato da digerire? Così non è, e infatti “Malignant Reality” a volte risulta addirittura orecchiabile (sic!) come nella suite finale ‘Planet of Skin’, intricato com’è in se stesso alla ricerca delle più raffinate disarmonie.

Il quartetto britannico, prebabilmente sia per inspessire il sound, sia per movimentare il medesimo, inserisce a profusione elementi di ambient (presenti anche canti tipo gregoriano, sic!) e di elettronica, regalando a chi ha il coraggio di ascoltare uno stile multiforme, caleidoscopico, ricco di variazioni ma fermo nel rivendicare la paternità di una e una soltanto genitorialità di tipo maschile. Detto stile, che a un primo approccio può apparire confusionario e scollato dal contesto, in realtà segue dei dettami ben precisi. Adesi, principalmente, alla voce di Mike Gonçalves.

Che, oltre a bombardare a desta e a manca con il suo basso, forma un punto fermo, una mailstone insomma, sul quale il resto della band può esprimersi a profusione come meglio crede. Anche le linee vocali sono estremamente altalenanti fra growling, tono stentoreo, urla, e harsh; ma sono sempre attaccate come cozze a un tono che, invece, non cambia mai al trascorrere delle song. La stessa filosofia è seguita dalle chitarre di Pete Lloyd e Itay Keren, impegnate a elaborare un riffing cangiante che, in certe occasioni ricorda addirittura quello geniale dei primi Voivod. È solo un esempio, tuttavia, giacché i due ensemble non hanno nulla a che vedere, dal punto di vista strettamente musicale.

Come fossero sottoposti a tortura, i riff si contorcono come se fossero in preda a una feroce colica, s’intrecciano strettamente come nel bondage; accelerano, rallentano, divergono dal quadro d’insieme per poi rientrarne improvvisamente, quando meno lo si aspetta. Il che, come si può intuire, regala al disco il dono dell’assoluta imprevedibilità. Per dire, ‘Nekrotunnel’ avanza pesante e potente come un carro armato, portando in sé il seme della distruzione sonora. Quando successivamente ‘Dwelling on the Threshold’, martoriata dal punto di vista ritmico poiché si passa dagli slow-tempo ai blast-beats, cerca invece più a fondo il germe dello stridore.

A proposito di canzoni, riuscire a mandarle a memoria è pressoché impossibile, anche dopo reiretati ascolti. La struttura del songwriting è troppo difficile da digerire interamente. Resta sempre fuori qualcosa di impalpabile, come se non si riuscisse a infilare l’LP nella saccoccia, sfuggendo così rotolando e rotolando. Il che obbliga ad affrontare LP stesso non da vicino ma da lontano, osservandolo da un punto da quale si riesce ad avere una visione d’insieme. In tal modo sfumano le note dei singoli elementi ed emerge un’unica entità musicale. Ben chiara e quindi percepibile nella sua interezza.

È chiaro che tutto quanto sopra necessita di tempo, per avere successo, per cui è possibile che il platter stanchi e annoi prima che si sveli completamente. Va da sé, quindi, che “Malignant Reality”, peraltro ben eseguito dall’ottima padronanza tecnica posseduta dai membri dei Replicant, rischi di finire nel dimenticatoio. Il che è un peccato dato che, davvero, può mostrare cosa significhino i concetti di gustosa cacofonia e di totale dissonanza.

Daniele “dani66” D’Adamo

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