Recensione: Infinity
I Journey, Dei dell’olimpo dell’AOR, non nascono come gruppo melodic oriented. Infatti dal 1975 al 1977 produssero ben tre album all’insegna di un rock articolato ed originale (“Journey” nel 1975, “Look in to the future” nel 1976 e “Next” nel 1977). A Neal Schon e al tastierista Greg Rolie, che erano stati nei primi anni ’70 alla corte di Santana, si unirono il talentuoso batterista Ansley Dunbar (poi anche con Whitesnake ed UFO) ed il bassista Ross Valory, ma nonostante la bontà dei dischi sopra citati non ebbero quel riscontro di vendite che la major (CBS) per la quale erano scritturati si aspettava. Decisero dunque di operare una netta svolta stilistica che li avrebbe portati a vendere milioni e milioni di dischi in tutto il mondo. Il merito di tutto ciò fu soprattutto dell’incredibile voce del nuovo cantante Steve Perry, sicuramente più adatto ad interpretare canzoni orecchiabili destinate sia al circuito radiofonico che alle grandi platee che affolleranno i loro concerti per un’intera decade (in precedenza le parti cantate erano a carico di Greg Rolie). Inoltre il music business cominciava per l’appunto a cambiare privilegiando l’immediatezza e la fruibilità del prodotto musicale rispetto ai lavori articolati ed imprevedibili che avevano caratterizzato la prima metà degli anni ’70, e tra gli alfieri di questo cambiamento ci furono sicuramente i Journey (oltre a Boston, Angel, Styx e Foreigner). “Infinity” infatti è la prima splendida perla di melodic hard rock che il combo americano è stato in grado di offrirci. L’album, uscito nel 1978, fece sfracelli negli Stati Uniti dal punto di vista delle vendite, e la qualità delle composizioni era di assoluto valore, risaltando un invidiabile songwriting ed una perizia tecnico compositiva più unica che rara.
Prendendo in esame una per una le canzoni contenute in “Infinity” è impossibile però scindere l’accoppiata iniziale : “Feeling that way” e “Anytime”, nella prima l’introduzione del piano è da brividi, così come il refrain sognante cantato da Rolie accompagnato dall’irruzione nel bridge dalla voce cristallina di Perry come quasi a sottolineare il passaggio di testimone tra i due cantanti; stesso discorso vale appunto anche per “Anytime” che sembra seguire lo stesso filo conduttore, in cui entrambi i vocalist si cimentano in una delle più belle melodie scritte in campo rock, ma sarà solo la prima di una lunga serie; che dire poi della chitarra di Schon, riconoscibile tra mille altre, per il suo suono particolare, pulito e mai ingombrante. Dopo questo inizio all’insegna del rock più melodico si passa alla scoppiettante “La Do La”, dalla calvacata rock’n’blues, in cui la voce di Perry tocca picchi altissimi e che verrà spesso e volentieri riproposta dal vivo proprio per la sua attitudine “Live”. “Patiently” ci riporta attraverso atmosfere dolci ed ultramelodiche, d’altronde la forza di questo disco risiede proprio nella melodia, ed in questo senso i Journey sembrano proprio giocare in casa; il vero successo commerciale però verrà scatenato da “Lights”, canzone dedicata alla città natale dei Journey, San Francisco, che soprattutto a livello radiofonico li trascinerà ai vertici delle classifiche americane: l’incedere slow-blues accompagnato dalla solita splendida voce di Perry in un refrain indimenticabile sono state le carte vincenti di questa traccia. Personalmente non la ritengo una delle migliori della loro produzione, però posso immaginare quale sia stato l’impatto di tale melodia sulle orecchie di una qualsiasi teen-ager dell’epoca. Detto questo passiamo al primo vero capolavoro dell’album, “Wheels in the sky”, perfetto prototipo di AOR song, dominata da tutti quegli ingredienti che caratterizzeranno questo genere. Bellissimo il giro di chitarra di Schon accompagnato dalle tastiere di Rolie, sembra che i nostri tornino indietro di qualche anno riprendendo spunto a piene mani dall’hard rock tradizionale, ma sugli scudi rimane comunque lo stupendo refrain cantato da Perry, per una di quelle canzoni destinate all’immortalità. Infatti sarà il “classicone” invocato e riproposto ad ogni concerto fino ad oggi! Altro slow rock blues è “Something to hide” traccia di sicuro valore che lascia trasparire in certe sfumature quel gusto di gran classe tutto Journey. Il secondo capolavoro è rappresentato da “Winds of March”, in cui ogni nota risulta essere pura poesia, con un ritornello dolcissimo inframezzato da una splendida cavalcata elettrica che contribuisce a rendere questa canzone ancora più magica. Segue la ruffiana ed hard rockegiante “Can Do”, discreta e ben inserita nel contesto generale del lavoro. Chiude le danze “Opened the door”, altra grande prova vocale di Steve Perry, alle prese con le atmosfere sognanti divenute la sua specialità.
Se da un certo punto di vista mi sento di poter biasimare la svolta stilistica dei Journey verso lidi nettamente più commerciali, dall’altra non posso che riconoscere il talento infinito di questi musicisti americani; in tal senso “Infinity” rappresenta il primo tassello di una serie di lavori indimenticabili, che segneranno un genere e che faranno sognare con i loro ritornelli strappalacrime milioni di persone. In questo senso non posso che ammettere che i Journey sono stati effettivamente bravi e che non è affatto semplice riuscire a tirare fuori da un solo album una serie così lunga di “Hit”, così nonostante la produzione sia ancora effettivamente legata a certe sonorità più settantiane, l’album scorre via piacevole, lasciando dentro l’ascoltatore un turbinio di emozioni, che riesce a scuotere gli animi anche dei meno sensibili, insomma il perfetto intreccio tra l’hard rock ed il suo versante più romantico, quello di cui non dovremmo mai vergognarci.
Tracklist:
1. Feeling That Way
2. Anytime
3. Lights
4. La Do Da
5. Patiently
6. Wheel In The Sky
7. Somethin’ To Hide
8. Winds Of March
9. Can Do
10. Opened The Door