Recensione: Informis Infinitas Inhumanitas
Tre parole magiche: Relapse, brutal e America. Triade concettuale che
dovrebbe suscitare in qualsiasi deathster che si rispetti smaniosa trepidazione,
attendendo che un altro (l’ennesimo…) disco del nostro genere preferito
attenti al nostro sistema nervoso. Questa volta tocca agli Origin, quintetto di
Kansas, fare gli onori di casa con Informis Infinitas Inhumanitas, secondo
album
della band dopo il debutto, Origin (del 2000). E anche questa volta non
rimaniamo delusi.
In un genere in cui suonare velocemente e annichilire l’ascoltatore non
sempre dà dei risultati soddisfacenti, gli Origin dimostrano che con le doti e
le capacità adeguate non c’è alcun freno all’estremizzazione. Informis Infinitas
Inhumanitas si porta oltre il limite, segna un nuovo record nella corsa alla
teorizzazione del chaos, nell’imbrigliare entro una precisione quasi matematica
un sound intricatissimo e multiforme. Nessun sconvolgimento al tanto caro stile
americano, ma un approccio personalissimo alla materia; chiunque sia avvezzo a
queste sonorità non può non riconoscere un brano degli Origin in mezzo allo
sterminato panorama brutal di oggi, non può non rimanere a bocca aperta di
fronte a composizioni di così rara violenza e precisione, non può non stupirsi nel tentare
invano di memorizzare velocemente gli innumerevoli passaggi che i nostri
compiono per tutta la durata del disco. Sulla carta Informis Infinitas
Inhumanitas dura meno di mezz’ora, ma vi assicuro che la percezione del tempo,
durante l’ascolto, viene completamente sopraffatta dalle inesorabili, fittissime
trame che i nostri riescono ad erigere, dandoci solo pochissimi secondi di pausa
qua e là per poter renderci conto di quello che stiamo ascoltando.
Musicisti estremamente preparati, produzione esemplare, buonissime intuizioni
non possono altro che dare gustosi frutti. Informis Infinitas Inhumanitas è uno
di quei classici platter da buttare giù tutto d’un fiato, in cui andare ad
analizzare i singoli brani sarebbe inutile. Meglio lasciarsi trasportare
dall’incredibile dipanarsi di stop and go, ripartenze fulminee, riff poliedrici,
triplici assalti vocali dal growl più cavernoso allo scream più corrosivo, e
dal lavoro mostruoso di John J. Longstreth (ex Angelcorpse, Skinless
e Exhumed) alla batteria, una vera a propria
piovra umana incapace di seguire lo stesso pattern per più di cinque secondi di
fila. Come rovescio della medaglia vi è una tendenza a rendere tutti brani un
po’ simili tra loro, o meglio, deficitarii di un mood particolare da renderli
facilmente distinguibili l’un l’altro. Unica pecca che grava leggermente sul
giudizio complessivo di un disco altrimenti ineccepibile. Ma chi riuscirà ad apprezzare questo
album dovrebbe sapere che non c’è da preoccuparsi per “inezie” del genere, ben
consapevole che gli Origin non si pongono di certo il problema di rendere
appetibile la propria musica, avendo unico scopo quello di suonare il più
brutalmente possibile e di spaccare il “sederino” a chiunque gli si ponga
davanti.
Un gruppo in rapida ascesa, che sta guadagnando una certa fama nel panorama
estremo – tant’è che il chitarrista Jeremy Turner ha sostituito temporaneamente
il defezionario Jack Owen nei Cannibal Corpse – capace di saper migliorare
ulteriormente e
di spingersi oltre i limiti segnati con quest’album, attraverso il terzo lavoro
in studio, Echoes
Of Decimation (del 2005). Un disco che vuole essere ostico, maledettamente
intransigente e micidiale, diretto ai cultori del genere. Per tutti gli altri è
meglio che giriate al largo dagli Origin, non è musica che fa per voi.
Stefano Risso
Tracklist: