Recensione: Inglorious
Predire il futuro dell’hard rock non è poi così difficile, soprattutto se è nelle mani di gruppi come gli Inglorious, capitanati da Nathan James, ex-Trans–Siberian Orchestra ed ex-Uli Jon Roth band. Le intenzioni dei Nostri sono semplici quanto sincere: riproporre quel rock energico e seminale la cui linea ereditaria risale ai tempi dei Led Zeppelin e Deep Purple.
La voglia di revival non è certo una novità e il nuovo millennio ha fatto emergere una pletora di nomi dediti a questa operazione (basti pensare ai Wolfmother). Basterebbe sentire “Until I Die” per capire di che cosa parlo: l’hammond crea la giusta atmosfera mentre il giro di chitarra è ossessivo e sudato, intriso di hard blues vecchia scuola ed alcool. La voce di James si inserisce perfettamente nel contesto retrò, con un timbro caldo e ruvido, chiaramente ispirato nell’intonare le strofe a Ian Gillan e Robert Plant (e non solo… come vedremo in seguito).
Non ci vuole, dunque, la sfera di una veggente per capire cosa ci riserveranno le altre carte di questo mazzo: “Breakway” scatta in groppa a chitarre dinamitarde, dando una buona scossa di adrenalina anche grazie al coro diretto come il titolo.
A detta di Nathan, tutta questa energia è frutto di una registrazione (e relativo soggiorno) con tutta la band nella stessa stanza, senza sovraincisioni o altri artifici, una presa diretta del suono per riprodurre lo spirito genuino delle vecchie rock band.
Se “Breakway” preme sull’acceleratore, “High Flying Gypsy” ferma la smania di folli corse e avanza a passo sicuro. I cambi di tempi sono sporadici e l’ingrediente essenziale rimane quel ritmo trascinato a base di accordi rochi, torridi, nati da un bisogno impellente di creare groove. Altro carburante indispensabile è la voce penetrante di James, per una canzone che intrattiene, senza lasciare il segno…
E’ ovvio che la volontà di celebrare il passato può rappresentare l’arma a doppio taglio di tali produzioni. “Holy Water” è qui a dimostrarcelo, rivisitando accorgimenti strumentali e vocali saturi dei Seventies, senza la magia di quel periodo… per forza di cose.
“Warning” vuole movimentare le acque lanciando un assalto martellante e concentrico con un ritornello fulmineo quanto arrembante. Il tiro non scema e viene mantenuto alto grazie anche alla breve durata del brano e alla totale assenza di fronzoli (nessuna concessione alle divagazioni chitarristiche).
“Bleed For You” inverte la rotta verso una canzone d’amore giocata su tempi medi, dove il ruolo di protagonista è ricoperto dall’ugola urlante e appassionata del singer. Gli sprazzi acustici calano l’ascoltatore in un’atmosfera sofferta e romantica, piacevolissimi nel loro accento folk. I vibrati enfatizzano la melodia, donando quel sapore decandente e sofferto che sa allettare l’ascolto.
Talento e modelli da seguire
La performance di Nathan non si discute in quanto a range, potenza e intonazione ma bisogna ammettere che l’influenza di Coverdale ha avuto il suo peso in “Girl Got A Gun” e “You’re Mine”. Nella prima, il cantato conserva l’anima bluesy di fondo tanto cara al biondo crinito David e ai suoi Whitesnake. Il refrain possiede un bel trasporto in crescendo, sinuoso come il Serpente Bianco delle origini (stile desunto da “Lovehunter”… qui irrobustito dal naturale appesantimento del suono).
“You’re Mine“ tradisce ancora un’amore viscerale per Coverdale & co., con quell’andamento spezzato a là “Still Of The Night”. I testi? Nessuna novità alla pari della musica proposta: il gentil sesso è sempre un ingrediente irrinunciabile e questo il buon James lo sa bene (come dimostra l’homepage del suo sito…).
Maggiore personalità traspare dall’atipica title track, un mid-tempo che mescola accordi muscolosi (più vicini all’heavy metal) ad un’aura mistica, ricreata da voci diafane e da una sottotrama di synths. L’atmosfera è ulteriormente dilatata con inserti solisti mentre la voce profonda del cantante si accosta perfettamente al contesto, con aperture da screamer. In sostanza, un brano giocato sull’atmosfera piuttosto che su un ritornello efficace o su un assolo veramente dirompente, con risultati gradevoli.
Nemmeno in chiusura le consuetudini vengono meno: “Wake” è affidato ai suoni placidi del battere e levare della chitarra classica. Bisogna ammettere che Nathan sa rendere questo risveglio con un’interpretazione eccellente, riflettendo prima un sonno dolce e tranquillo, poi scuotendoci dal torpore dall’alto della sua voce.
Il piano dell’ultima “Unaware” sembra proporre qualcosa d’inatteso ma la chitarra, fedele ai dettami del disco, si intromette fragorosa e rutilante, affamata di riff convenzionali e sanguigni. Il coro mantiene ancora quel tocco onirico della title track, seppur possiede un loop più penetrante e seducente, che raggiunge prima il cuore della materia grigia. Epilogo interessante, che non snatura la tradizione e crea un compromesso tra vecchio e nuovo.
Only for fanatics
L’idea di suonare hard rock settantiano può anche piacere ai giorni nostri ma è un’operazione accettabile a piccole dosi, dilazionata nel tempo: ascolti concatenati di questo tipo di progetti potrebbero stancare il pubblico smaliziato e l’audience in cerca di nuove sonorità, annoiato dal citazionismo (più o meno evidente).
Insomma, se volete rivivere il passato attraverso una produzione moderna, fatevi sotto, “Inglorious” è vostro (la sessione ritmica è d’impatto, la prestazione vocale è brillante e saprà convincervi, pur peccando di originalità…). Per tutti quelli allergici alle rivisitazioni, non serve azionare la macchina del tempo degli “Inglorious” ma è sufficiente un ripasso dei classici del genere.
Eric Nicodemo