Recensione: Inishmore
Formatisi nella seconda metà degli anni’70 per opera del talentuoso chitarrista Mark Reale, i Riot sono da ritenersi fra i gruppi più sottovalutati dell’intero panorama metal: autori di un vigoroso heavy metal culminato nel capolavoro Thundersteel (1988), gli americani, fra cambi di stile e di line-up hanno saputo sempre mantenere elevato il livello della loro proposta musicale. Questo Inishmore, in particolare, rappresenta verosimilmente l’apice qualitativo del nuovo corso intrapreso nel 1992 con Nightbreaker, che vide la dipartita dell’ugola potente e orientata agli acuti di Tony Moore in favore della timbrica “calda” di Mike DiMeo: un sound quindi meno aggressivo e più melodico, con reminescenze hard rock di scuola Blackmore ben amalgamate a certo power moderno senza rinunciare ad alcuni tipici “Riot trademark” consolidati nella precedente decade.
Il disco, un concept ambientato nell’Irlanda della carestia nel XIX° secolo (che narra le vicende di un giovane abitante dell’isola di Inishmore, la cui innamorata è emigrata in America per sfuggire all’indigenza), si apre con BLACK WATER, preludio dal sapore celtico, con una cantilena di violino a cui presto subentrano chitarre e batteria in un incedere marziale nel quale si inserisce anche il tema melodico di Inishmore. Si entra quindi nel vivo, con l’ingresso in scena di DiMeo sulla doppia cassa di ANGEL EYES, supportata dal gradevole lavoro delle due chitarre armonizzate in apertura e nel bridge, ma soprattutto da una serie di twin solos di stampo neoclassico, che per melodia, pulizia e tecnica mi sento tranquillamente di classificare fra i più belli del metal anni’90. Si prosegue sulla medesima falsariga con LIBERTY, impreziosita da un ritornello maggiormente cantabile (anticipato dalle chitarre di Reale e Flyntz nell’introduzione alla strofa) che la rende una delle mie preferite del lotto, mentre si cambia parzialmente registro con KINGS ARE FALLING, un terzinato hard’n’heavy di taglio ottantiano che si segnala tra l’altro per i bei cori del ritornello (i quali contano la partecipazione di Danny Vaughn dei Tyketto e di Tony Harnell dei TNT). Nella parte centrale dell’album, il sempre ispirato songwriting di Mark Reale strizza l’occhio in casa Deep Purple/Rainbow, con pezzi come THE MAN (il cui punto di forza risiede nello splendido crescendo del bridge, poi richiamato anche in sede di assolo) e SHOULD I RUN, quest’ultima leggermente più aggressiva (anche nell’interpretazione di DiMeo) e caratterizzata, come la successiva, sferzante, CRYING FOR THE DYING, da alcune notevoli variazioni ritmiche imposte dal duo Jarzombeck/Perez. Fra questi brani si incastona bene la perla WATCHING THE SIGNS, aperta da una splendida e radiosa melodia armonizzata, accostabile in qualche modo alle atmosfere folk iniziali, per un mid-tempo happy/power che potrebbe anche ricordare qualcosa degli Helloween: assoli dal gran gusto melodico e un chorus trascinante (supportato ancora da ottime backing vocals) completano il quadro di una canzone esteriormente lineare, che in ogni caso non può che entrare nella mia personale top-three del disco. Un album che comunque ha ancora importanti cartucce da sparare, a cominciare da TURNING THE HANDS OF TIME, dotata di un ritornello fra i più melodici e catchy in assoluto (preceduto da una strofa che mi rimembra velatamente i miei amatissimi Black Sabbath dell’era Tony Martin) e dal capolavoro GYPSY, che, introdotta da un veloce e in apparenza minaccioso bicorde, sembra in seguito un po’ riassumere musicalmente le caratteristiche generali dell’album (e dei Riot di oggi): ecco quindi un’altra solare melodia a due chitarre ad anticipare lo splendido refrain e una sezione strumentale in cui Reale e Flyntz si alternano in modo impeccabile per poi unirsi in un assolo a due voci tipicamente power. La conclusione battuta del pezzo, praticamente stile “live”, chiude idealmente anche il “corpo” dell’album, con le onde del mare ad annunciare le struggenti atmosfere ancora “irish” del delicato interludio INISHMORE (FORSAKEN HEART): qui le melodie già apprezzate in sede introduttiva ci conducono nella solitudine dell’isola irlandese, con un toccante DiMeo nei panni del protagonista, non ancora rassegnato, ad invocare l’amata, fino all’epilogo strumentale della title track, con Jarzombeck maestro nel dirigere ritmiche assolutamente sopra le righe, quasi prog, e melodie folk che nel finale si riallacciano nuovamente al tema di Inishmore, il quale riprende ad oltranza sino a dissolversi nei fruscii costieri.
Concludendo, siamo di fronte ad un album senza punti deboli, da considerarsi il meglio della produzione recente di una storica band e che mi sento di consigliare tanto agli amanti del metal classico, quanto a quelli del power e dell’hard rock.