Recensione: Innervoid
C’era grande attesa per l’uscita del tredicesimo lavoro in studio degli Eldritch: sicuramente perché non sarebbe stato facile confermare quanto di buono fatto con gli ultimi album (solo per ricordarne uno, il recente, ottimo “EOS” del 2021), ma soprattutto perché, per la prima volta nella loro carriera, dietro al microfono avremmo trovato non il cantante originale, nonché co-fondatore, Terence Holler, ma il nuovo e poco conosciuto Alex Jarusso, a cui è spettato l’onere (e perché no, anche l’onore) di sostituire una delle figure più importanti, ma anche più ingombranti, come personalità e carisma, del panorama metal italiano. E, nemmeno a dirlo, un grande cantante con un timbro e uno stile molto personali, per forza di cose colui che impersonava il volto della band e la cui voce veniva automaticamente ad essa collegata. Non sarà stato quindi banale per l’ultima colonna portante della band, Eugene Simone (affiancato dall’altro grande veterano Oleg Smirnoff) mantenere la barra dritta per una rotta iniziata ormai 30 anni fa, ma la tenacia e la passione non sono elementi da sottovalutare, per cui eccoci qua, con un lavoro nuovo di zecca, “Innervoid”, uscito ancora una volta per Scarlet Records. Appunto, inutile nasconderlo, la prima cosa che è venuto spontaneo prendere in considerazione per questa disanima è stata la performance del sopra menzionato Jarusso: globalmente parlando (avremo poi modo di andare a contestualizzare nei singoli pezzi, ove necessario), il nuovo cantante già dalle primissime strofe appare a suo agio nel ruolo, perfettamente integrato nel suono e nello stile della band. Dotato di ottima estensione vocale, possiede un timbro forse un po’ più standard di Holler, ma decisamente metal (forse anche di più del suo predecessore) e non fatica minimamente a caratterizzare i pezzi con quell’intensità, quel “drama” a cui da sempre gli Eldritch ci hanno abituato. Per cui, diciamolo subito: prova cambio cantante ampiamente superata senza evidenti difficoltà o indecisioni.
Ma è chiaro, la performance del singolo non basta a rendere valido un lavoro. La prima impressione che si coglie addentrandosi nell’esame di “Innervoid” è la sua compattezza, la sua essenzialità: nove pezzi più una intro e meno di cinquanta minuti di musica rendono l’album uno dei più brevi della discografia della band. E questo sicuramente giova alla sua concretezza. Subito si percepiscono atmosfere familiari, ossia quelle di un power-prog moderno, perfettamente calibrato tra chitarre e tastiere, dove queste ultime però non si limitano a fare da tappeto melodico, ma, con grande personalità, si ritagliano fraseggi di grande creatività; indubbiamente, il rientro di Oleg Smirnoff ha giovato tantissimo alla band (che pure senza di lui poteva contare su un un songwriter di un certo livello come Eugene Simone, ricordiamolo). Esempi lampanti in questo senso sono riscontrabili in praticamente tutte le tracce, mentre con la compattezza (quasi compressa) di certe ritmiche, il pensiero non può andare a quelle soluzioni rese celebri dai Nevermore, ad esempio. Passaggi al limite di un thrash tecnico e progressivo che sicuramente ha fatto parte della crescita musicale di Eugene Simone & co. E oltre al songwriting maturo, la componente tecnica è elevatissima: i virtuosismi sono routine, fortunatamente sempre (sempre!) al puro servizio dei pezzi e mai fine a se stessi. Azzeccata la scelta dei singoli (fin dagli albori la band è stata in grado in almeno un paio di canzoni da ciascun album di inserire passaggi particolarmente graffianti e facilmente memorizzabili): in “Elegy Of Lust” Alex Jarusso carica la performance di un trasporto non indifferente e tutta la linea melodica è pregna di pathos, mentre in “Black Bedlam” la costruzione del pezzo è tutta da analizzare e raggiunge l’eccellenza nel crescendo che dal bridge porta al chorus. Drammaticità anche nella ballad “Wings Of Emptiness”, diversamente dalla nervosa “To The End”, dove una sorta di frenesia controllata porta a scelte compositive all’avanguardia che sarebbero bislacche per la maggior parte delle band, ma che sono all’ordine del giorno in casa Eldritch.
In aggiunta, una base ritmica capace di non limitarsi a cementare e sostenere la struttura di ciascun brano, ma di arricchirlo con passaggi pensati e a valore aggiunto: ascoltando l’album con la giusta concentrazione, possibilmente in cuffia, è possibile percepire la cura usata nella scelta dei fill di batteria e dei lick di basso (bravi Raffahell Dridge e Dario Lastrucci, ma quando c’è la mano di Simone Mularoni dietro al mixer che permette agli strumenti di uscire fuori così bene, è ancora più facile). Non ultima in ordine di importanza, poi, la capacità della band di riuscire ad essere così classica nella sua modernità, con scale e assoli che si interlacciano armoniosamente con basi al limite dell’eurobeat.
Per non promuovere “Innvervoid” avremmo potuto tranquillamente usare la comunque valida motivazione della mancanza di vere novità a livello compositivo, ma è impossibile non esprimere un giudizio più che positivo davanti a tale ricchezza di elementi, che, pur non facendo uscire il gruppo dalla sua confort zone o gridare al miracolo, permettono a ciascun pezzo di brillare di luce propria e che, amalgamati un un album consistente, solido e intenso, confermano gli Eldritch tra i maestri di un certo modo di creare metal d’autore. Che la storia continui, quindi…
Vittorio Cafiero