Recensione: Innocence & Decadence

Di Emiliano Sammarco - 22 Novembre 2015 - 11:13
Innocence & Decadence
Band: Graveyard
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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70

Le prime note di Magnetic Shunk mi fanno trasalire, il pezzo è magnifico, selvaggio, irresistibile, una delle migliori canzoni mai scritte dai Graveyard, eppure recensire Innocence & Decadence non è stato affatto facile. Ad un primo assaggio o lo si ama o lo si odia – senza mezze misure – e devo dire che ultimato il primo ascolto ero più propenso ad odiarlo che ad amarlo. Ma io sono testardo e stranamente nonostante non fossi esaltato ero comunque invogliato a spingere nuovamente il tasto play e credetemi difficilemente un album mi provoca reazioni cosi contrastanti.

Devo ammettere che ho sempre amato la band svedese sin dagli albori e che il penultimo Lights Out, incensato dai più, lo avevo trovato in realtà un lavoro noioso e poco longevo anche perché i nostri avevano già detto tutto nel medesimo modo e con risultati a dir poco sorprendenti con il precedente capolavoro a nome Hisingen Blues.

Il nuovo corso è bene dirlo, nonostante mantenga invariate determinate coordinate – di cui la band si fa portavoce sin dagli esordi – cerca di virare verso qualcosa di più nuovo e fresco, anche perché un Lights Out parte seconda a mio avviso avrebbe affossato gli svedesi verso un qualunquismo preoccupante.

Del recente passato, le cose rimaste invariate sono la grande capacità dei nostri di scrivere ottime canzoni, unite alla voce graffiante e riconoscibilissima di un Joakim Nilsson in splendida forma – a mio avviso una delle migliori ugole rock uscite negli ultimi anni – e l’onnipresente blues zeppeliano, vedi l’opener di cui vi parlavo pocanzi, o le belle Never theirs to Shell e la graffiante Hard Headed, quel che manca è quel fumoso approccio occult che aveva contaminato il feeling primigeno della band. Forse questa nuova profusione di luce – can’t Walk Out – è stata la cosa più difficile da digerire per gli amanti della prima ora. Ma superato quest’ ostacolo le nubi iniziano a diradarsi, tutto si fa un po più chiaro ed in From a Hole in the Wall – cantata dal nuovo bassista Truls Morck – capisci che i Graveyard possono ancora stupirci, il breve blast beat – avete letto bene – nella parte centrale del pezzo, oltre a proporci qualcosa di fresco e originale, ci fa capire quanto gli svedesi possano ancora donarci e quanto il death melodico sia radicato anche nel DNA di un rocker da quelle parti.

Un ultimo aspetto che balza agli occhi in quest’album è che anche i pezzi lenti hanno un sapore diverso e paragonarli al passato sarebbe anche in questo caso controproducente, canzoni come Exit 97, Too Much is not Enough e Far too Close si tuffano nel cantautorato settantiano, abbeverandosi ancora una volta da fonti differenti ma non per questo meno espressive. Diverso è il discorso per la conclusiva ballata Stay for a Song che si veste di quell’isolazionismo malinconico che aveva caratterizzato i pezzi da novanta dei precedenti lavori. Per concludere The Apple and The Tree, forse il pezzo più fuori corde mai scritto dai nostri, leggero e diretto, ma anche questa volta – dopo svariati ascolti –  la canzone va che è una bellezza.

Date una chance ai nuovi Graveyard, e se vi diranno che questo è il lavoro più leggero mai scritto dalla band, è vero, se vi diranno che questo è il lavoro più solare scritto dai nostri, anche questo è  vero, ma se vi diranno che in quest’album sono contenute brutte canzoni, bè allora vi stanno mentendo, perchè – che vi piaccia o meno – Innocence & Decadence è un lavoro che trasuda cuore e passione ad ogni nota e se nel futuro qualche piccola imperfezione di troppo verrà aggiustata allora si tornerà a sognare in grande anche in casa Graveyard.

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