Recensione: Speciale Saxon: recensioni Innocence Is No Excuse, Rock The Nations, Destiny [BMG Reissue]
Ed eccoci alla terza tranche delle succosissime ristampe dei Saxon targate BMG. Stavolta è il turno di “Innocence Is No Excuse”, “Rock The Nations” e “Destiny”.
Come già scritto in occasione delle precedenti (qui il link della prima e qui quello della seconda), anche in questo caso le reissue in cd si presentano curate sotto ogni aspetto, a partire dalla grafica passando per il packaging del tutto, a libro cartonato. Sempre ventiquattro risultano essere le pagine a disposizione del libretto incorporato, con tutti i testi dei vari brani presenti, rare foto, memorabilia di quel momento storico e note aggiuntive che spiegano l’origine e la genesi delle bonus track, che costituiscono le vere chicche dell’operazione.
Successivamente al controverso, controversissimo “Crusader” del 1984, che più di un defenderone aveva deluso, l’anno successivo i Saxon erano attesi alla classica prova del fuoco. Una cosa da “dentro o fuori” nel cuore – e nel portafoglio – dei metallari più duri ed intransigenti. Della serie: “Una volta mi puoi sbagliare, ma la seconda…”.
E i nostri cosa fanno?
Si presentano sul mercato nel giugno del 1985 con un album che in copertina piazza una ragazzotta intenta ad addentare una mela griffata con la “S” alabardata grondante abbondante succo… Al di là dei – probabili – doppi sensi di bassa lega, quello che poi sciocca per davvero il pubblico più tradizionalista è il contenuto dello stesso album: dieci pezzi di heavy hard rock che in maniera spudorata puntano al mercato d’oltre oceano!
In quel periodo, là fuori, è bene ricordarlo, le orde agghindate di cuoio e borchie cresciute (anche) a pane e Saxon erano use abbeverarsi alle fonti purissime dell’Acciaio, quelle definite dai Manowar di “Hail To England” e “Sign Of The Hammer”, dai Tyrant di “Legions Of The Dead”, dagli Accept di “Balls To The Wall” e “Metal Heart” e dai sempiterni Iron Maiden, che non sbagliavano un colpo, con l’ultimo centro, in ordine di tempo, incarnato da “Powerslave”. C’erano, poi, gli sconquassi provocati da gente come Exciter, Metallica, Exodus, Slayer, Overkill che altro non facevano che aggiungere ulteriore benzina al Sacro fuoco del Metallo.
E i Saxon? Chiudono con la Carrere Records, approdano alla EMI, girano la testa dall’altra parte e guardano alla West Coast Usa, ai vari Van Halen, Motley Crue, Ratt e Quiet Riot!
Troppo, davvero troppo per molti aficionados della prima ora che irrimediabilmente voltano le spalle al gruppo dello Yorkshire. Altri, fra i quali il sottoscritto, non mollano la band in un momento di – presunta – stanca e continuano a darle fiducia illimitata.
Tanto per dare un’idea di quanto “Innocence” lasciasse spiazzato l’ambiente, in generale: una colonna del giornalismo metallaro come Rockerilla manco se lo filò proprio il disco, non curandone nemmeno la recensione. Cosa impensabile, a livello di marketing, anche solo qualche anno prima!
Per lo scriba, però, così come allora, oggi, alla luce di un’ulteriore analisi a freddo, dopo anni e anni, il settimo full length del Sassone più famoso dell’empireo musicale, era e rimane un discone! Forte di una produzione roboante, al suo interno inanella dieci pezzi di livello senza alcun filler né calo di tensione particolare. “Innocence Is No Excuse” scorre via che è un piacere in maniera armonica. L’Hard Rock metallizzato fornito a pieno tonnellaggio dai Saxon sa arrivare al cuore di chi si predispone nella giusta maniera all’ascolto. Highlight assoluto risulta essere “Broken Heroes”, una traccia ove l’antica epica dei britannici riesce ancora a conquistarsi il suo meritato spazio e magicamente non fa a pugni con il taglio yankee dell’impianto generale. Il resto si compone di bordate da rock arena di diversa foggia e natura, a partire da “Rockin’ Again” per finire con “Back On The Streets” con nel mezzo le varie “Everybody Up” e “Devil Rides Out”, solo per fermarsi a due.
Il problema, o non problema, dipende sempre dai punti di vista e dalla sensibilità di ognuno, è che il prodotto è marchiato “Saxon”! E non Pretty Maids o Dokken!
Le bonus track aggiunte da BMG sono una più bella dell’altra: apre le danze “Live Fast, Die Young” per poi lasciare il passo alla terremotante “Krakatoa”, entrambe uscite a loro tempo come B-side. La prima con il singolo di “Back On The Streets” e la seconda con quello del maxi single “Rock’N’Roll Gypsy”, passato alla storia, in negativo, per via dell’inclusione di quella scandalosissima versione di “Heavy Metal Thunder” suonata al rallentatore!!! A seguire cinque canzoni poi finite su “Innocence” ancora in versione demo.
Preso ormai atto del cambio stilistico e di look – che a quel momento pareva irreversibile – il mondo metallico che guarda al Sassone, sebbene meno nutrito che inizio anni Ottanta, attende con trepidazione il successore del disco-mela che nell’ottobre del 1986 si palesa sotto le spoglie di “Rock The Nations”, sempre con la EMI, l’etichetta storica dei “cugini” Iron Maiden. La copertina riporta a un’epica che la band pareva aver smarrito, quantomeno nel tonnellaggio che sfornava con il trittico d’oro anche se, con uno sguardo un po’ cinico, dipinge situazioni che in quel momento i britannici si potevano solo sognare: ossia folle oceaniche di persone che si recavano a un loro show… Fra le bandiere rappresentate, poi, quella italiana c’è ma non compare in bella vista, come invece il nostro paese si sarebbe meritato ampiamente. Se i Saxon in quel momento di scarso appeal commerciale e di seguito non avessero beneficiato, oltre che del pubblico tedesco, anche del supporto in termini numerici e ed economici dei metalhead italiani più fedeli, buonanotte ai suonatori… “Rock The Nations” fu inoltre incolpevole (?) portatore di un’altra cattiva notizia: il baffuto Steve Dawson, icona dell’HM, ispiratore del suo omologo nel film The Spinal Tap nonché simbolo dei Saxon stessi, non faceva più parte della ciurma. Egli fu bellamente messo alla porta da parte del management, che non ne voleva sapere di gente che nutrisse ambizioni di leadership. In quella posizione già troneggiava il frontman Biff Byford ed evidentemente non si tolleravano altri soggetti carismatici fra i marroni. Il siluramento di “Dobby” avvenne comunque con il benestare – o il silenzio assenso – degli altri membri della band. Sul disco il basso venne suonato da Byford mentre in tour venne reclutato Paul Johnson, un bravo ragazzo che non rompeva le scatole e si atteneva alle regole in voga allora in casa Saxon.
“Rock The Nations” fu disco ondivago: accanto a partiture hard rock oriented trascurabili, i vecchi leoni di Sua Maestà riuscirono a piazzare un paio di colpi notevoli. La title track, un bel pezzo trascinante, ideale da sparare dal vivo, un inno da concerto sebbene inferiore ad alcuni loro classiconi del passato; poi “Battle Cry”, episodio di heavy metal d’alto lignaggio, veloce e guerresco, che poggia sul ribollire della batteria di Nigel Glockler. Mai apprezzate né “Northern Lady” né “Party Til You Puke”, tracce ove il gruppo tirò dentro Elton John, vicino di studio in quel periodo. Due forzature belle e buone che non azzeccavano nulla coi Saxon…
Per quanto concerne le bonus track il monopolio è affidato ai pezzi dal vivo: fra Madrid e il Reading Festival del 1986 cinque sono gli estratti. Insieme con loro “Waiting For The Night” e una trascurabile “Northern Lady”, entrambe in veste 7 single edit, successive a “Chase The Fade”, una pallida B-side scelta ad accompagnare la stessa “Waiting”.
A seguire la recensione del disco tratta dalla rivista Rockerilla numero 75 del novembre 1986.
Saxon
Rock the Nations
EMI
1986
Quando mi trovo davanti ad un disco dei Saxon, mi balza sempre alla mente una metafora calcistica; mi ricordano cioè quei giocatori anziani che hanno già avuto i loro giorni migliori. Questi giocatori, pur venendo superati sul piano fisico-atletico dalle nuove leve, sopperiscono a queste carenze con la loro classe innata, che gli permette di tenere il campo sempre con grande dignità. I Saxon, di classe, ne hanno ancora da vendere; sono passati i tempi in cui i loro primi album ci incendiavano con “Motorcycle Man”, “Heavy Metal Thunder” e “Fire in the Sky”, brani, per quel periodo, extraveloci; ora preferiscono proporci soluzioni più ritmate, più studiate, ma il loro tasso tecnico alza sempre il livello dei pezzi che, pur essendo in certi casi “facili”, vengono sempre arricchiti dalle capacità di Byford e soci. Questo disco ha segnato anche la fine della lunga e onorata milizia del “bass-man” Steve Dawson, che ha deciso di dare spazio a progetti più personali. E’ stato rimpiazzato da Paul Johnson che proviene dai Gary Barden’s Stratetrooper. La produzione è stata affidata alla sapiente mano di Gary Lyons, che aveva lavorato in passato con gruppi del calibro di Aerosmith, Queen, Rolling Stones e Ufo. Il lavoro è stato completato in una settimana ai Wisseloord Studios di Amsterdam. Come fatto curioso, bisogna segnalare la presenza di Elton John (togliamoci il cappello davanti ad un grande rocker), che suona il piano in due tra i più bei brani dell’ellepì, “Northern Lady” e “Party Til You Puke”; quest’ultimo lo considero addirittura la punta di tutto il lavoro, sembra un po’ di sentire un “Crocodile Rock” suonato pesante. Per il resto citiamo pure la “Rock The Nations” stessa e “Waiting For The Night”, che è stata scelta per il 45 giri apripista.
Il successo non ha ancora voltato la faccia ai Saxon (a testimonianza di ciò ci sono gli osanna ricevuti all’ultimo festival di Reading); oggi riescono ancora a farsi amare e rispettare in virtù di una carriera che, pur ergendoli sempre al ruolo di protagonisti, non li ha mai visti prendere atteggiamenti da “superstar”. Proprio per questa loro onestà e semplicità di base, riescono sempre a tener vivo l’interesse e l’affetto dei propri fan che oggi sono ancora in gran numero. AND THE BAND PLAYED ON!
Tiziano Bergonzi
Il terzo tris delle reissue Saxon fatto uscire da BMG si conclude con “Destiny” del 1988, per lo scriba il punto più basso della carriera dei Saxon nella loro lunga storia. Un disco né carne né pesce, che sancirà infatti il divorzio dalla EMI. Dietro ai tamburi il nuovo Nigel Durham a rimpiazzare l’altro Nigel, Glockler. Dieci pezzi anonimi, unico acuto una cover, “Ride Like The Wind” di Christopher Cross. Che è tutto dire… Tre quarti d’ora privi di mordente, figli di una band spenta, alla ricerca di sé stessa ove ormai “la retta via era smarrita”. Il leader Biff Byford ammise anni più tardi che per la prima volta nel loro lungo corso in quel momento i Saxon rischiarono fortissimamente di sciogliersi, e per sempre. Le date italiane assomigliarono a un raduno di nostalgici, gente che nel 90% dei casi era lì per vedere celebrati i vecchi tempi gloriosi, quelli delle mazzate elargite da “Motorcycle Man”, “20,000 Ft”, “Heavy Metal Thunder” e compagnia cantante… In quel preciso momento i Saxon, a parere di chi scrive, realizzarono che il loro sogno americano era miseramente fallito: comunque sempre troppo heavy metal per sfondare negli Usa, nonostante eyeliner e foto compiacenti, così come troppo “smollati” nella vecchia Europa per mantenere la platea dei metallari ortodossi. Nonostante la costante opera di revisionismo in atto da qualche lustro a questa parte nel mondo legato all’heavy metal e all’hard rock, “Destiny” mantiene incontrastato la maglia nera fra i dischi realizzati dagli Stallions Of The Highway dello Yorkshire. E teniamo conto che con “Thunderbolt” di quest’anno siamo a un totale di ventidue uscite ufficiali!
Sarà un caso ma anche le bonus track by BMG non fanno gridare al miracolo: al di là di tre pezzi alive il resto da studio non entusiasma di certo…
In conclusione la recensione di “Destiny” così come uscita sulla rivista H/M numero 43 del giugno 1988.
SAXON
Destiny
EMI
1988
Tornano i cavalieri dell’heavy anglosassone con un LP che mostra delle non indifferenti potenzialità di conquista anche per ciò che concerne la piazza statunitense. Sono stati smussati molti angoli ed una forte dose di melodia si è fatta strada tra i riff granitici del quintetto di Biff & Soci che comunque non vede snaturatala sua indole “picchiatoria” proponendo in Destiny più di un episodio tirato. Qua e là fa capolino qualche tastiera e più di una volta i ritornelli vocali appaiono un po’ troppo ruffianelli e canticchiabili, ma questa nuova prova dei Saxon conserva inalterata quell’energia che ne ha fatto un grande gruppo, assicurando nuovamente al quintetto gloria ed onore. Destiny risulta certamente più heavy di quanto non lo siano le più recenti prove degli altri dinosauri del British Heavy Metal (Whitesnake, Judas Priest, Def Leppard…) decisi in modo evidente ad imporsi in terra a stelle e strisce fino quasi a snaturare il vecchio sound; i Saxon restano fedeli alla linea ma aggiornati alle nuove tendenze, al passo coi tempi e sempre pronti a colpire con la stessa potenza di ieri. “Ride Like The Wind” è la cover del pezzo di Cristopher Cross (!!!) resa in piglio hard con maestria unica; “When The Lightning Strikes” e “I Can’t Wait Anymore” guardano speranzose oltre oceano fondendo power e soft in vista dello sbarco sassone nella terra degli Hot Dog. “Calm Before The Storm” (No Venom Relations!) sa essere aggressiva ed accattivante quanto basta mentre “S.O.S.”, dall’intro polare e d’atmosfera, non si discosterebbe troppo dalle consuete composizioni dei Saxon se non fosse per la farcitura di insinuanti tastiere. “Song for Emma” sta a metà strada tra la ballad ed il brano power; “For Whom The Bell Tolls” (No Metallica…), “Jericho Siren” e “Red Alert”, in pieno Loudness-style, sono più tirate e veloci mentre “We Are Strong” è un potenziale american Hit Single. Per tutti i gusti ma pur sempre Saxsongs!!!
Vincenzo “Jamaica” Barone
La svolta, tanto agognata dai die hard fan, avvenne poi in modalità “ritorno del figliol prodigo” due anni più tardi, quando i Saxon tornarono con il capo cosparso di cenere all’antica magione che aveva dato loro i Natali, quella tutta borchie, cuoio, cartucciere e Acciaio in ogni dove, tramite “Solid Ball Of Rock”. Ma si tratta di un’altra storia…
Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti