Recensione: Innsmouth
Esordio autoprodotto per gli Obed Marsh, duo di Perth che, a due anni dalla fondazione e dal conseguente demo “Desquamate”, diffonde nel mondo il culto dei Grandi Antichi lanciando sul mercato “Innsmouth”, legando indissolubilmente il suo operato all’immaginifico universo esplorato da H. P. Lovecraft. Onde evitare di scartavetrarvi le gonadi con la classica pappardella letteraria su chi sia stato Lovecraft e quali siano state la sua importanza letteraria e la sua influenza sul mondo del metallo, mi limiterò ad inquadrarvelo come il ponte ideale tra Edgar Allan Poe e Stephen King, nonché uno degli autori che (a mio modestissimo avviso, sia chiaro) hanno descritto meglio la paura dell’ignoto, intesa come sentimento fondamentale dell’esperienza umana e inserendola in un contesto cosmico, popolato da entità innominabili (termine sempre caro al nostro amato scrittore) e spaventosamente potenti. Viste questa premessa e, soprattutto, il caratteristico straniamento che si accompagna alle opere dello scrittore di Providence, era lecito aspettarsi da parte dei nostri esordienti d’oltreoceano un approccio musicale parimenti angosciante: obiettivo centrato, a detta di chi scrive, solo in parte.
Iniziamo con ciò che funziona. Innanzitutto la copertina dell’album, ad opera di Mark Cooper, che inquadra perfettamente l’atmosfera angosciante ed innaturale che ogni lavoro lovecraftiano dovrebbe avere: la luminosa entità che suona il flauto rischiara un ambiente alieno ed inquietante che, nella sua liquida ed opprimente maestosità, prepara l’ascoltatore nel modo più appropriato agli orrori che lo travolgeranno a breve. In secondo luogo, pollice alto per la proposta strumentale del duo australiano, un doom metal funereo e ossessivo dalle atmosfere salmodianti e, in un certo qual modo, quasi rituali nella loro snervante ripetitività. Le percussioni si mantengono sempre su ritmi lentissimi, indolenti fino al limite dell’inerzia, eppure è proprio questa flemma a costituire l’indispensabile base su cui “Innsmouth” tesse il suo incantesimo: melodie ipnotiche e quasi cosmiche nel loro essere circondate da un vuoto avvilente si intrecciano a dissonanze a modo loro ammalianti, riff circolari incastrati in loop senza fine ed echi ambient disseminati, senza soluzione di continuità, per tutto l’album. Dal punto di vista puramente strumentale “Innsmouth” funziona, e funziona alla grande.
Ciò che non funziona, invece, è la voce: lo scream di Sam, per quanto raschiante, disperato ed oppressivo al punto giusto, non si discosta più di tanto dai canoni del black metal e, per questo, non riesce a trasmettere appieno, secondo me, quell’ansia e quel senso di incomprensibilità abissale che avrebbe reso questo lavoro veramente lovecraftiano. Al contrario, il suo approccio un po’ troppo monocorde finisce per appiattire la resa di tutte le canzoni le quali, essendo già piuttosto ripetitive per conto loro, non avevano bisogno di un ulteriore macigno sulle loro spalle e diventano, pertanto, piuttosto difficili da distinguere l’una dall’altra. Non so se questo sia o meno un effetto voluto per aumentare ulteriormente il tasso di straniamento ed alienazione del lavoro (in questo caso obiettivo centrato in pieno, anche se, come scrivevo prima, il troppo stroppia), ma ciò trasforma di fatto “Innsmouth” in un unicum denso e appiccicoso, decisamente poco digeribile se non per i più fanatici adepti del culto di Dagon.
Mettendo per un attimo il cuore da parte, direi che ci troviamo dinnanzi a un esordio interessante ma che fin da subito si indirizza verso un pubblico decisamente ristretto, precludendosi una grossa fetta di utenza per via di una proposta che potrebbe risultare troppo indigesta ai più. Se, come il sottoscritto, amate la pesantezza degli scritti di Lovecraft e le sue atmosfere opprimenti, allora molto probabilmente troverete nella proposta degli Obed Marsh pane per i vostri denti; in caso contrario avvicinatevi a questo “Innsmouth” con cautela, potrebbe essere dura arrivarne in fondo.