Recensione: Intensities
“Intensities” è il secondo full-lenght in carriera dei Plague Rider, entità che comprende membri (o ex) di Live Burial, Dybbuk e Horrified. Il che significa, in prima battuta, che si ha a che fare con musicisti scafati, ricchi di esperienza e di personalità.
Qualità che consentono di esprimere tutta la loro bravura nell’elaborazione di un death metal sperimentale, ostico, lambiccato, estremamente tecnico. In cui regna sovrana la dissonanza e la non-linearità, intesa come metodo per erigere song assai diverse dal solito formato dettato dal rock.
Durante i primi ascolti, è bene dirla tutta per non scoraggiare i potenziali fruitori, sembra che essi improvvisino o, addirittura, suonino a caso. Il che non è assolutamente vero, poiché procedendo con i cerchi che si aprono e si chiudono con le due suite ‘Temporal Fixation’ e ‘Without Organs’, piano piano, poco alla volta, si dipana uno sterminato tappeto di note che seguono chiaramente gli impulsi mentali di chi lo ha intessuto.
Quello sopra citato è un processo che, però, richiede una lunga immersione nel disco, che potrebbe scoraggiare se non tutti, i meno adusi alle sonorità del metal estremo. La relativa fase assimilativa necessita di tempo e di pazienza ma, alla fine, si può centrare l’obiettivo, e cioè riuscire a trovare un senso al tutto.
Lo stile del quartetto del Regno Unito è davvero unico nel suo genere. Come detto, si tratta di death metal, a ogni buon conto imbottito di accidenti musicali tale da renderlo (volutamente) caotico e confuso, incapace di seguire una strada che abbia una logica, in termini di dettami musicali. In realtà, a mano a mano che procedono gli ascolti emerge, netto, un carattere deciso, sicuro di sé ma, soprattutto, in grado di elaborare un sound che, come più su accennato, nell’ambito del metallo oltranzista non trova poi altre emulazioni.
Interessante, per ciò, il cantato di James Watts, completamente stralunato, che abbraccia più tipologie fra le quali emergono delle scellerate, folli harsh vocals. Ovviamente non manca un cavernoso e inintelligibile growling. Il tutto condito, qua e là, da urla e grida che rendono le linee canore parecchio tortuose, oltreché imprevedibili. Anche in questo caso, si tratta di un modus operandi che non trova molti riscontri analoghi, altrove.
La chitarra di Jake Bielby svolge un lavoro mostruoso, comprendente una mole abnorme di riff e di scorrazzate disarmoniche sulle corde più fini del suo strumento. Non esistono praticamente segmenti iterati, giacché la mobilità dell’approccio allo strumento fa sì che il rifferama non ammetta costruzioni evidenti ma, al contrario, tortuose al massimo.
Impressionante, pure, la prestazione di Matthew Henderson, il quale estrinseca una serie pressoché infinita di pattern. Presumibilmente, a voler fare la conta, non paiono esserci segmenti ritmici ripetuti nella loro unicità, messi in fila per una comprensione che assume i caratteri dell’impossibilità. Non mancano ovviamente i blast-beats, momenti in cui il combo britannico, paradossalmente, trova la retta via per una comprensione meno complicata del sound.
Lee Anderson, poi, manovra il suo basso slappando come un dannato e proponendo, anche lui, un percorso arzigogolato, assai ostico, che affianca il resto degli strumenti/voce aggiungendo uno step in più nel capire il Plague Rider-sound.
In tempi in cui le novità si contano sulle dita di una mano, l’experimental death metal dei Nostri è come manna che cade dal cielo. Tuttavia, almeno a parere dello scriba, la ferrea volontà di distinguersi dal resto del Mondo li ha portati a esagerare in tutto e per tutto, rendendo “Intensities” (nome omen) un’opera adatta soltanto a un ristrettissimo numero di famelici appassionati di lavori durissimi da masticare nonché quasi impossibili da digerire. Ultima ma non ultima encomiabile, in ogni caso, la micidiale determinazione dei Plague Rider nel tentare l’impossibile.
Daniele “dani66” D’Adamo