Recensione: Interbellum
“Interbellum”, in uscita fra un paio di giorni, è il nuovo album dei Cathubodua, quintetto belga attivo dal 2016, e arriva a cinque anni dal precedente “Continuum”. Tematicamente, l’album racconta l’arco vitale della dea della guerra raffigurata nell’affascinante copertina: dalle grandi speranze iniziali allo sfoggio di potere, passando per sogni, amori e perdite fino al bruciante senso di colpa, la storia della dea (che tra l’altro offre il collegamento al monicker del gruppo, visto che Catubodua dovrebbe essere proprio il nome di una divinità celtica della guerra) viene veicolata attraverso sei tracce per una mezz’oretta di musica. Per chi non li conoscesse, i cinque belgi propongono un power metal imperioso e rombante dalla spiccata componente sinfonica, che trova in “Interbellum” un equilibrio invidiabile tra gli elementi che lo compongono. Che si parli, infatti, della maestà delle incursioni sinfoniche, della possanza del power metal, del pathos dei passaggi più delicati o di quell’elemento indefinibile che colora ogni traccia di sfumature diverse, qui ce n’è abbastanza da accontentare più o meno tutti. Echi dei nomi grossi del genere si affacciano di tanto in tanto sulle composizioni del quintetto, ma non si può non notare come i belgi ci mettano parecchio del loro confezionando un album impattante e diretto senza per questo scadere nel banale. Il suono di “Interbellum” è pieno, strabordante, ma per fortuna siamo lontani da quella plasticosità bombastica e posticcia che spesso maschera malamente lavori poco ispirati: la ricchezza di “Interbellum” è data in primo luogo dall’ottima fusione dei vari strumenti e in secondo da doti compositive da non trascurare, che danno vita a brani solidi mal al tempo stesso immediati valorizzando l’ottima prova del quintetto. Ogni traccia di “Interbellum” possiede una personalità specifica e una rotondità ammaliante, che consente al gruppo di avvolgere l’ascoltatore nelle sfumature della propria musica, screziata qua e là di elementi folk o rapide sfuriate senza dimenticare una certa grandiosità. A coronare il tutto una voce che si mantiene piena e sfacciata per buona parte dell’album, ricorrendo a toni suadenti e languidi solo quando serve.
Si parte arroganti con “Effigy of Aftermath”, traccia bellicosa che sfrutta un tappeto frenetico per ricamare melodie possenti, rallentamenti enfatici e passaggi dal retrogusto bucolico che, di colpo, si incupiscono per poi tornare a dispensare trionfalismo belligerante. Un arpeggio contenuto e dallo spiccato profumo celtico introduce “Foretelling”, per poi far posto all’esplosione enfatica che da il via alle danze vere e proprie. La traccia si sviluppa come una marcia maestosa, screziata di volta in volta da passaggi ariosi e melodie più raccolte, mentre la voce di Sara si fa di volta in volta beffarda e declamatoria e chitarra e violino sgomitano per aggiudicarsi le luci della ribalta, trasmettendo le giuste vibrazioni. “Will Unbroken” prosegue più o meno lungo le stesse coordinate, ma mettendo da parte i profumi folk per concentrarsi sul comparto sinfonico, pur senza dimenticarsi di una certa incombenza nei cori e nella componente più aggressiva. “Amidst Gods” torna a sfoderare gli artigli esibendo chitarre pesanti bene in vista ed un piglio determinato a sostenere una voce stentorea. L’incursione di violino guida la carica durante l’improvvisa sfuriata eroica che conduce al finale e traghetta a “The Mirror”. Qui i nostri abbassano i ritmi per destreggiarsi con melodie suadenti ma non prive di una certa inquietudine. Il pezzo gioca con un carico emotivo sfaccettato, mescolando note sentite e cariche di pathos a toni quasi fanciulleschi sfumandoli, però, con ombreggiature più tragiche. Il compito di chiudere le danze è affidato alla lunga “Goddess Fallacy”, introdotta da un fare dimesso che sembra annunciare la ballata. In poco meno di un minuto, invece, i Cathubodua tornano alla carica con ritmi possenti e melodie maestose, trasformando il pezzo in una lunga marcia dall’afflato epico. Tutti gli elementi della ricetta dei nostri tornano a farsi sentire, rimpallandosi il centro della scena: riff secchi, intromissioni di pianoforte, melodie pastose, brevi sfuriate dal retrogusto ferino ed orchestrazioni magniloquenti creano un brano vorticoso e insistente, salvo poi fermarsi e ricominciare tutto da capo. Il doppio assolo di chitarra e violino introduce un elemento più crepuscolare nel trionfalismo dei nostri e guida verso un nuovo climax imperioso prima di scivolare nel finale soffuso.
Al termine dell’ascolto di “Interbellum” rimane un piacevolissimo senso di sazietà, che si consolida con gli ascolti successivi. Il quintetto belga non inventa nulla, ma confeziona un lavoro concentrato e privo di veri e propri punti deboli: era da tempo che non ascoltavo un metal sinfonico di questa caratura, immediato ed entusiasmante senza suonare stucchevole o condiscendente. Consigliatissimo, soprattutto (ma non necessariamente) se vi piacciono certe sonorità.