Recensione: Into a New Dimension
Ed eccoci di nuovo a parlare del Metal Cristiano.
“White Metal”, lo chiamano, nelle varianti più estreme “Un-black Metal”. La proposta è dei paesi anglosassoni, in particolare americana, dove talvolta i gruppi riescono addirittura ad esibirsi nelle chiese. I nostri sono invece tre ottimi musicisti scandinavi: il cantante Christian Rivel (ironia della sorte anche nel nome), il chitarrista-batterista-tastierista-fac totum Jani Stefanovic e il bassista Andreas Olsson.
L’idea è moralmente ortodossa, un po’ meno la scelta tematica nell’ambito di un genere musicale, che, si sa, preferisce argomenti più aggressivi, se non addirittura negativi. Ben venga comunque; fa bene per l’immagine del Metal far sapere che esistono anche band di questo tipo. Certo, è un po’ strano sentir cantare la lode di Dio in una musica tutta doppia cassa, chitarre distorte, scream e growl anziché no! Ma è anche questo parte del divertimento. Purché non diventi una parodia un po’ blasfema, o meglio, una rilettura in termini troppo forzatamente unilaterali delle verità morali cristiane. E in certi momenti, specialmente nel sottogenere unblack pare proprio così. Non è il caso dei Divinefire, comunque, che eplicano il loro credo talora in modo non scontato, talora con un eccesso di semplicità, ma sempre con grande convinzione. Si sa, lo dicevano anche gli antichi quando erano accusati di insistere troppo sulla rappresentazione del Male: il Bene non è facilmente drammatizzabile, è molto difficile costruire una storia senza le tentazioni della negatività. Ma è per questo che la sfida è davvero interessante.
Ora basta divagare però: parliamo del terzo album degli scandinavi, che è anche questa volta davvero ottimo. Testi a parte, si tratta di un power metal molto spinto, su alte velocità e con melodie immediatamente assimilabili. I Divinefire non inventano nulla di nuovo, questo è vero, ma il loro sound è comunque del tutto peculiare, e soprattutto, godibile e “ispirato”. Le tastiere, come è logico che sia, insistono su sonorità corali-orchestrali “paradisiache”. C’è qualcosa degli Angra nel mood generale, in particolare da album come “Rebirth” o “Temple of Shadows”. Le musiche sono semplici ma non stancano, la sezione ritmica fa il suo dovere in ogni situazione, con la batteria che incalza in ogni momento come in pochi gruppi power attuali.
Rispetto alle prime due uscite, questo album è più compatto e meno divagante. Ogni canzone si definisce da subito molto chiaramente nella mente dell’ascoltatore, intro e outro racchiudono il tutto perfettamente in una grande sensazione di solidità, richiamandosi a vicenda nell’aprire e chiudere il cerchio divino.
L’intro, “Vision Of The New Dawn”, è una barocca scalata verso le vette del paradiso, su tonalità minori molto struggenti e sonorità quasi da black sinfonico. L’insistenza sui cori intromette però direttamente nel tema cristiano, con perfetta coerenza tematica. L’outro “The Last Encore”, poi, sembra tratta da un vero concerto sacro. L’uso della polifonia corale è qualcosa di straordinario, e ricorda i grandi maestri Palestrina e Monteverdi. L’atmosfera è comunque completamente moderna, grazie al sapiente uso delle percussioni e dell’orchestra. Musicalmente parlando, prescindendo dal metal più puro delle tracce cantate, questo è sicuramente l’apice compositivo del gruppo fin dagli esordi. Peccato che siano “solo” 3 minuti, e non abbiano osato costruirci sopra una lunga suite: sarebbe stata una perfetta colonna sonora per il Paradiso di Dante, per esempio.
L’opener “Passion & Fire” è una canzone esplicativa sul senso del White Metal: un ottimo connubio di rock e crisianità, uniti in un vincolo imprescindibile, come dichiara il ritornello. «We rock, we will never stop, with passion and fire, ‘til we’ve reached our goal». L’elemento che dà senso a tutta la composizione è il pervasivo tema di tastiera, che ricorda un po’ quello di “Nova Era”.
Come è logico che sia, uno dei temi biblici preferiti dei Divinefire è l’Apocalisse. Ce la racconta “Time’s Running Out” su velocità vertiginose e con un bellissimo ritornello. Ottima la presazione vocale del cantante, che prima della sezione solistica raggiunge anche quote “altimetriche” notevoli. L’accento è posto soprattutto sull’aspetto rassicurante che l’essere nelle mani di Dio dà: d’accordo, è la fine, ma Lui ci salverà. In testi come questo, l’idea di escamotage un po’ troppo costruito può saltare all’occhio: così è, e non ci si può fare molto.
La title-track, “Into a New Dimension”, è un altro apice in un disco senza veri e propri cali di stile. Melodia e velocità ancora padrone, in un altro vero e proprio pezzo di bravura di una band ormai matura. Vale la pena di spendere un’altra buona parola sulla migliore qualità degli svedesi: l’organizzazione orchestrale complessiva dell’apparato musicale. Ogni canzone dà sempre un appagante senso di pienezza, ogni angolo sonoro è colmato.
“Facing The Liar” tratta dell’incontro col Maligno, e il growl testimonia un passaggio molto delicato nella vita spirituale dell’individuo. Questo è il momento in cui testi e musica si coniugano meglio, in un grande afflato poetico e descrittivo, sebbene il modo di affrontare il tema sia molto semplice. La cosa migliore è il bridge, che musicalmente richiama direttamente la vicenda del crociato di “Temple of Shadows”, oltre al solo-interlude in progressione alla Stratovarius, davvero da brividi. Da notare che in questo album l’uso del growl e degli elementi più spinti del metal è passato in secondo piano rispetto ai primi due. Non se ne sente la mancanza però: nei momenti in cui è usato, così centellinato, risulta estremamente efficace.
Un acuto impressionante ci porta dentro a “Live or Die”, il cui titolo dice già tutto. In un album davvero da applausi, questo è forse il momento meno entusiasmante, un po’ troppo nella media e senza veri picchi di qualità, se non nella sezione corale-solistica centrale.
“Alive” mostra qualcosa di nuovo, a dimostrazione che questo è un album che riesce anche ad essere vario e sorprendente. La strofa richiama le composizioni di Zak Stevens e i Savatage, la voce di Christian si fa calda e suadente, mentre i tempi si abbassano un po’, finalmente, a dare un minimo di riposo all’ascoltatore. Bridge in growl, ritornello rapidissimo e assoli tarantolati su base corale: gli elementi del successo ci sono tutti anche qui.
L’ultima canzone effettiva prima della stupenda chiusura strumentale è “All for One”. Di sicuro è l’apice della banalità testuale, ma, forse per questo, è anche la canzone che si imprime di più nella mente dell’ascoltatore. «We are brothers, we are sisters, all for one in His service», più semplice di così non si può. Ma anche qui non mi permetto di dichiararmi insoddisfatto: tutt’altro! La canzone è davvero esaltante, nella sua contemporanea multiformità e compattezza.
Ad essere sincero, non pensavo che un progetto così marginale nella scena power attuale potesse sorprendermi così tanto. Mi sono accostato ai Divinefire con interesse, ma anche con un filo di scetticismo, sia per le tematiche, sia per la proposta musicale che si preannunciava molto standard. Non si evade dai canoni più di tanto, in effetti. Ma questa è musica da professionisti, in grado di distruggere la maggior parte dei rivali, anche più quotati, senza alcuna possibilità di appello.
Non resta che dire bravi ai Divinefire, veri messaggeri della fede e della nostra musica! Da ascoltare e fare ascoltare a tutti, soprattutto a quelli che dicono che il Metal è il diavolo (con buona pace di Jack Black), e a chi, ancora peggio, afferma addirittura che non è musica. Da noi in chiesa non entreranno mai, questo è certo, vista la poca apertura mentale circolante; ma il messaggio è comunque genuino, una vera e propria preghiera agli angeli. Quelli buoni, una volta tanto.
Tracklist:
1. Vision Of The New Dawn
2. Passion & Fire
3. Time’s Running Out
4. Into a New Dimension
5. Facing The Liar
6. Live Or Die
7. Alive
8. All For One
9. The Final Victory
10. The Last Encore