Recensione: Into the Legend
Dopo due anni di attesa i Rhapsody of Fire sono tornati. Il drago metallico ha affrontato la bufera per discendere di nuovo tra noi, portando seco “Into the Legend”: un disco che già dal titolo rimanda inevitabilmente a quel “Legendary Tales” (1997), debut di una giovane band destinata, appunto, ad entrare nella leggenda del metal. Dopo lo split al termine della saga che ha visto il gruppo sdoppiarsi in due parti complementari, i Luca Turilli’s Rhapsody da un lato e la prosecuzione del percorso dei Rhapsody of Fire dall’altro, questi ultimi sono usciti con un disco controverso come “Dark Wings of Steel”. Un album che divise i fan, caratterizzato da un ritorno ad un sound più guitar-oriented e farcito di mid-tempo di scuola manowariana, e da un songwriting abbastanza prolisso e lineare. “Into the Legend” si staglia alla ricerca di un aufhebung, di un superamento e di una sublimazione di quel lavoro, e si presenta dopo sette mesi di produzione svoltasi a Trieste sotto l’occhio vigile di Alex Staropoli, come dichiarato nella nostra recente intervista. Ad accompagnare la band ben tre cori, un baroque ensemble e diversi solisti.
Per affrontare il futuro bisogna talvolta guardarsi indietro e ricominciare daccapo. “In Principio” parte con delle percussioni lontane che esplodono tutto d’un tratto in una melodia corale in latino con forti richiami a “Sympnohy of Enchanted Land pt.II” (2004). L’attacco della successiva “Distant Sky” ci riporta invece a “Power of the Dragonflame” (2001), con l’alternate picking martellante di Roby de Micheli al quale segue subito uno sweep alla velocità della luce. Il pezzo è 100% Rhapsody con un chorus trascinante, la doppia cassa ed i cori epici. Bello il solo, che nella seconda sezione ricorda un po’ quello di “Emerald Sword”. Titletrack “Into the Legend” (video ufficiale) sempre dominata da una doppia cassa agguerrita, pezzo di nuovo a velocità sostenuta ma forse meno ficcante e diretto del precedente a causa di un chorus un po’ impazzito, con una grande prestazione di di Fabio Lione.
Il mid tempo “Winter’s Rain” torna sui registri del disco precedente ma acquisendo però qui un suo quid perché immerso in un songwriting di maggior varietà, con la massiccia presenza di cornamuse e con il suo incedere solenne, lirico e maestoso. Imponenti i cori.
Ancora un cambio d’atmosfera per la calda ed onirica “A Voice in the Cold Wind”, che vede negli strumenti a fiato guidati da Manuel Staropoli (fratello di Alex) la sua principale raison d’être, con Fabio che indossa le vesti di menestrello per accompagnarci in un viaggio dal sapore antico. Immancabili i cori, divertente il solo tecnico preceduto dal virtuosismo flautistico. Di nuovo a gran velocità per “Valley of Shadows”, forse il brano più intenso dell’intero platter: brillante l’ingresso chiaroscurale tra screaming del Lione e la bellissima voce della soprano Manuela Kriskak, al quale segue un testo tra inglese e latino. La parte solista su doppia cassa e coro che precede l’ultimo chorus è davvero da brividi per chi apprezza il metal neoclassico.
Di nuovo stop improvviso, come sulle montagne russe, con la ballata “Shining Star”, pezzo la quale è stato dedicato un video. Molto intensa e sentita la linea vocale, che però non affonda e si chiude senza particolari sussulti nell’ascoltatore. La successiva “Realms of Light” è un pezzo tipicamente Rhapsody abbastanza prevedibile in zona filler, buona la chiusura. Ultima accelerata di doppio pedale per “Rage of Darkness”, sui registri di “Power of the Dragonflame”, che assedia l’ascoltatore fino al solo incrociato di chitarra, tastiera e basso, quest’ultimo ad opera del nuovo entrato Alessandro Sala (Sinestesia).
Segue una lunga suite finale, l’undicesima nella storia della band: “The Kiss of Light”, che come da sempre accade dividerà i fan tra pro-suite e contro-suite avvinti da posizioni spesso aprioristiche. Quasi diciassette minuti con i canonici cambi d’atmosfera, dall’ambient con flauto di intro, ai cori lirici, parte aggressiva, parte barocca, cantato in italiano su arpeggio e così via. Non sarà la miglior suite dei Rhapsody of Fire ma la qualità, la varietà degli episodi le atmosfere evocate mi sembrano notevoli. Quello che forse viene a mancare è il ritornello, troppo spinto e forse per questo poco immediato.
Al termine dell’ascolto viene da sottolineare un Fabio Lione magistrale e camaleontico, in una prestazione interpretativa tra le migliori degli ultimi anni: dalle parti più aggressive a quelle più calde e cariche di pathos, sempre con il vibrato che l’ha reso una delle voci più rappresentative del mondo del metal. Sulle liriche invece forse si poteva far di meglio, magari giocando maggiormente sui contenuti ed ampliando un po’ il lessico, ormai abbastanza stereotipato. Anche Il guitar work di Roberto de Micheli sembra essersi notevolmente evoluto, mostrando molta più personalità che nel precedente album; tecnico ma al contempo furente ed aggressivo sia nel riffing che – soprattutto – nelle parti soliste. Alcuni passaggi suonano davvero 100% Rhapsody ma con questo elemento inedito di grinta e ferocità in più su una sei corde più indiavolata che mai. Energia che va sommata al solito drumming sovrumano della macchina da guerra che risponde al nome di Alex Holzwarth.
“Into the Legend” non è un disco perfetto. Non vuol essere un disco bilanciato e non nasconde le sue origini magmatiche ed eterogenee, come l’ispirazione che l’ha concepito. È un disco dinamico e come il drago metallico che affronta la bufera nell’artwork, un album multiforme e strutturato, per quanto spesso prevedibile e barocco fino all’estremo. Pur ricusando qui gli aspetti vincolanti della forma-concept-album, con “Into the Legend” i Rhapsody of Fire sembrano aver finalmente ripreso un cammino musicale iniziato ormai quasi un ventennio fa: la band triestina si è infatti riappropriata di quegli stilemi identitari che sembrava aver smarrito sia nell’ultimo “Dark Wings of Steel” che, in parte, negli ultimi lavori pre-split. Laddove da un lato i Rhapsody di Luca Turilli sono riusciti ad incarnare l’idea più progressista, sperimentale, elettronica e spiritualista della band, i Rhapsody of Fire di Alex Staropoli e Fabio Lione hanno avuto il coraggio di tornare alla tradizione, ai richiami al barocco ed al celtico, alle atmosfere antiche unite ad una muscolosa dose di power metal. Ritrovata la magia della primigenia ispirazione, i Rhapsody of Fire tornano con questo disco al loro luogo d’origine, alle terre incantate alle quali appartengono: le profondità più remote della leggenda.
Luca “Montsteen” Montini