Recensione: Into The Night

Di Marco Tripodi - 3 Luglio 2019 - 8:00
Into The Night
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2019
Nazione:
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61

Vengono da Portland, Oregon, sono al debutto su High Roller Records, dopo un EP autoprodotto dello scorso anno di cinque pezzi e poco più di venti minuti. Se fate due conti però pure il nuovo full-length sta grossomodo sugli stessi numeri, 8 tracce per 32 minuti, ma se cominciate a togliere l’intro strumentale di un minuto e mezzo e la cover dei Ratt (“I’m Insane“) di circa 3 minuti, ecco che ci ritroviamo suppergiù sullo standard dell’EP. Di tutto si possono accusare i Leathürbitch (pure di avere un monicker demenziale), tranne che di logorrea. il prodotto è standardizzato da un chilometro di distanza, nome della band, titolo dell’album, copertina e tracklist odorano (o puzzano, dipende dai gusti) di dionisiaci anni ’80. E infatti così è, niente sorprese. La band esiste dal 2015 ma i ragazzi pescano a piene mani nel sound che fu, segnatamente la NWOBHM, benché la scelta di coverizzare i Ratt farebbe pensare ad altri stili musicali. Vero è che il metal anni ’80 era meno settoriale e settario, tolto il thrash più oltrranzista fondamentalmente era tutto un unico calderone dal quale abbeverarsi, che si trattasse di band più o meno variopinte, più o meno veloci come trame ritmiche, più o meno “occulte” come tematiche liriche. 

La scaletta di “Into The Night” (titolo originalissimo) è un intero out-take della nwobhm, quasi ogni riff, ogni passaggio, ogni vocalizzo di Joel Starr (nome di battaglia ancora più originale e creativo del titolo del disco) promanano da quel movimento mai archiviato nei cuori dei metalhead di tutto il mondo. Un pezzetto di Tygers Of Pan Tang, uno dei Raven, uno dei Blitzkrieg, ma anche tanto metal anni ’80 non necessariamente britannico (Laaz Rockit, Lizzy Borden, e similia), ecco il tetris di tessere che va a comporre il songwriting dei Leathürbitch, fieramente vecchi, giovani vecchi, immarcescibili vecchi. La voce di Starr ha esattamente quella impostazione lì, a tratti persino fastidiosa e ai limiti della stonatura, tuttavia stentorea e di personalità, a-melodica e carismatica al contempo. I ritornelli sono una vera croce per la band americana perché non ne azzeccano uno manco a pagare; i riff tengono in piedi le canzoni, tutti più o meno riusciti, quando si arriva ai chorus però i Leathürbitch adottano semplicemente la soluzione di urlare a pieni polmoni e bon, avanti con la seconda strofa. Non va meglio in sede di assoli, perlopiù irrilevanti, qualcuno pure brutto. L’assolo dovrebbe aggiungere quel quid in più al pezzo, farlo decollare definitivamente, essere un momento a parte nello schema strofa/ritornello/strofa/ritornello, qui invece si tratta di una manciata di secondi che navigano a vista e finiscono col banalizzare la canzone. Se ci aggiungiamo che il miglior episodio del lotto parrebbe essere proprio la cover dei Ratt verrebbe quasi da disfarsi sbrigativamente dei Leathürbitch. Tuttavia non c’è da essere così drastici, ascolto dopo ascolto il disco regge, tiene botta; è semplice, diretto, lineare (volendo anche banale a tratti), ma ha la furbizia di sapere dove andare a parare. I Leathürbitch sono i cugini meno dotati – infinitamente meno dotati – di Enforcer e Cauldron (…. come si chiama il primo disco degli Enforcer? Ah già…) eppure, a dirla tutta, se quel tipo di new wave of traditional heavy metal vi appassiona e fa vibrare le vostre corde, qualche scapocciatina la tirerete anche con i più modesti Leathürbitch. “Sleaze City“, “Killer Instinct“, la suddetta “I’m Insane“, si ascoltano più che volentieri, bisogna ammetterlo, più per il “clima” che si viene a creare che per il reale peso specifico del songwriting.

Assolutamente niente che faccia gridare al miracolo, un album che magari dimenticherete un’ora dopo averlo ascoltato, ma è anche vero che sotto monicker ben più altisonanti escono ciofeche persino peggiori (e qualcuno dovrebbe avere maggior coraggio nell’ammetterlo pubblicamente). Allo stato attuale, i Leathürbitch sono dei meri esecutori, dei mestieranti; non è detto lo debbano rimanere per sempre, anzi, essendo al debutto hanno tutto l’agio di maturare e produrre lavori di maggior personalità e spessore in futuro. Il potenziale ci può pure essere, a patto di accettare di fare il salto senza rete (dove la “rete” sta per la riproposizione pedissequa di stilemi anni ’80, sicuri, rodati ed apprezzati dai retro-metallers più romantici e nostalgici) e proporre qualcosa di più brillante e creativo, pur mantenendo l’orizzonte di un gusto legato a doppio filo alle sane vecchie torte della nonna.

Marco Tripodi

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