Recensione: Into the Serpent’s Den
Come capite se vi piace davvero la musica di una band?
Ovvio, il primo sintomo si manifesta nel momento in cui, finito di ascoltare un album, premete di nuovo il tasto play; il secondo quando sotto la doccia, guidando o dedicandovi al vostro hobby preferito, vi ritrovate a fischiettare una certa melodia, un riff, un assolo.
Nel mio caso può succedere anche che i due sopraccitati sintomi siano molto leggeri, ma che mi ritrovi inconsapevolmente a cercare nel web, con una certa regolarità, notizie relative ad eventuali nuove uscite del gruppo in questione. E’ proprio in questo modo che sono venuto a conoscenza dell’ultima release targata Axevyper, ed essendo passati ormai quattro anni dall’ultimo “Metal Crossfire” devo dire che stavo quasi perdendo ogni speranza di ascoltare del nuovo materiale.
Mi procuro l’album e subito salta all’occhio la cura nella realizzazione dell’artwork: copertina pacchiana come da tradizione, ma molto più professionale rispetto alle precedenti.
La recensione potrebbe anche finire qui perchè la stessa cosa accade per la proposta musicale; solito Heavy Metal di stampo ottantiano, melodico quanto basta, potente e suonato con passione e convinzione commoventi, ma stavolta finalmente con una produzione di alto livello e soprattutto dotato di un songwriting molto più articolato che in passato.
A questo punto chi non ha mai amato questo tipo di sonorità avrà già smesso di leggere quindi posso tranquillamente dilungarmi un altro po’ a descrivere come suona questo “Into The Serpent’s Den” ai “pochi” defenders rimasti su queste righe.
L’apertura col botto è affidata alla bellissima “Brothers of The Black Sword”, sette minuti di heavy metal duro e puro di scuola Maiden, sia nelle ritmiche (stavolta il basso si sente eccome!) che nell’egregio lavoro delle due asce di Guido Tiberi e Damiano Michetti, che sfociano in un chorus alla Domine.
Materiale per headbanging nelle rasoiate in doppia cassa di “Metal Tyrant” in cui gli assoli, per quanto canonici, sono azzeccatissimi e tematiche autocelebrative nella cavalcata “Soldiers of the Underground”, altro highlight del disco, che non sfigurerebbe se inserita in quel capolavoro chiamato “Seventh Son of a Seventh Son” (e se non sapete di cosa parlo, cosa ci fate su questo sito?).
A proposito di Maiden, “The Adventurer” è il pezzo che da anni non esce più dalla penna di Steve Harris; ascoltandolo la prima volta non ho potuto fare a meno di immaginarlo cantato da Bruce, con tutto il rispetto per l’ottimo lavoro fatto su questa traccia e su tutto il disco da Luca “Fils” Cicero davvero migliorato rispetto ai precedenti lavori!
Le cupe atmosfere di “Under The Pyramids”, forse l’episodio meno immediato tra tutti, e le buone, ma canoniche “Spirit of the Wild” e “Solar Warrior”, molto in linea con la passata produzione dei tosco-marchigiani, preparano al gran finale di “Beyond the Gates of the Silver Keys” che, introdotta da un bellissimo arpeggio di basso, si sviluppa in circa nove minuti di heavy metal epico e cadenzato, pieno di cambi di atmosfera soprattutto tra strofa e refrain; sebbene in alcuni passaggi salti all’orecchio una certa dispersione di idee, l’insieme funziona. In particolare nella parte centrale del brano, in cui sezione ritmica e chitarre soliste si fondono alla perfezione in melodie derivative quanto si vuole, ma efficacissime.
In conclusione una banalità.
Se non avete mai apprezzato gli Axevyper, state lontani anche dalla loro ultima fatica, se invece nutrite una passione sfrenata per un certo tipo di heavy metal “integralista” e non vi importa se in molti passaggi siano riproposti gli stessi schemi dei mostri sacri del genere, questi cinque ragazzi fanno al caso vostro.
Peccato solo per la seconda parte del disco, eslusa la mini suite finale, forse un pò più anonima, altrimenti saremmo qui a parlare di un piccolo capolavoro.
Bravi Axevyper e non fateci aspettare altri quattro anni per il prossimo!