Recensione: Into The Unknown
A seguito del buon Time, i Mercyful Fate, rinati da pochissimi anni, rilasciano sul mercato “Into The Unknown”. L’album, il sesto in studio della band (escludendo l’EP del 1982 e la raccolta Return of the Vampire), esce in contemporanea a “The Graveyard”, il disco di King Diamond solista, e, a 7 anni e numerosi ascolti di entrambi i lavori, credo che il primo sia più valido e meritevole, almeno musicalmente (a dire il vero i due album non hanno tanti punti in comune se non il singer danese). Into the Unknown tratta come sempre di atti e scene legate a forze sovrannaturali e diaboliche, atti che variano da canzone e canzone, e lasciano in comune solo un piacevole e sorprendente alone di mistero. Musicalmente il disco è come sempre, notevole, grazie a una line-up che prevede alle chitarre i notissimi Michael Denner e Hank Shermann, un incredibile Sharlee D’angelo al basso (decisamente il migliore strumento in tutta la produzione), e un decente Bjarme T.Holm alla batteria. King Diamond è come sempre ispirato alle vocals, anche se durante le 10 song il suo falsetto è usato solo con buona dose di misura, a favore di una voce sporca (e ben riuscita) alternata alla classica voce “sacrale”. Vediamo di analizzare i risultati di questa combinazione più nel dettaglio.
Il disco si apre subito molto bene, con la cupa e tetra “Lucifer”. Mai canzone è stata più in sintonia col titolo del disco al quale apparteneva come questa opener. Il discorso di King Diamond viene infatti accopagnato da un sottofondo strumentale che non lascia presagire nulla di buono, anzi, fa subito intuire che ci stiamo inoltrando in lidi oscuri e tutto tranne che
sicuri (la preghiera al diavolo che traspare dalla lirica dice tutto). Lucifer si chiude in fade aprendo un pezzo che io reputo davvero stupendo, ovvero “The Uninvited Guest”. Un basso davvero grandioso ci trascina in un mid tempo asfissiante, dalle sonorità pesanti quanto basta, graffiato continuamente dalle chitarre che narrano con King la presenza di tale Damian, un piccolo, vecchio e sconosciuto uomo. Bellissimi i cambi di
sound, che portano la track a saltare tra trame melodiche veramente suadenti (nella parte centrale), e parti di pura, sana cattiveria e perfidia strumentale. Finita la traccia non abbiamo tempo di riposarci che subito irrompe un’altro pezzo di ottimo livello, intitolato “The Ghost of Change”. Altro mid tempo dotato di grande carica, “The Ghost of Change” vede per
la prima volta nel disco King Diamond sfoderare costantemente il suo falsetto, accompagnato da un degno cast di supporto. La song non è sulla falsariga della precedente, bensì complessivamente meno diretta ed avvolgente, seppur con attimi che non dico tolgano il fiato, ma ci vanno vicino, pur nell’apparente tranquillità, che desta però quasi una sensazione di fastidiosa, e allo stesso tempo piacevole da provare, impazienza. Finiti i quasi sei minuti dedicati al fantasma del cambiamento, veniamo ingoiati dai riff lenti ma penetranti di “Listen to the Bell”. Alla lentezza della song fa da contraltare la sua pesantezza, pesantezza di un vero e proprio macigno, che
però non da affatto fastidio, ma trasmette una malvagià senza fine. Inquietante e pauroso l’assolo di Michael Denner . In sede di presentazione dicevo che il basso è sicuramente lo strumento che presenta il maggiore impatto all’ascolto, e se non mi credevate l’intro di “Fifteen Man (And a bottle of Rum)”, ne è la più chiara dimostrazione. Sharlee D’angelo ci ipnotizza con una trama musicale rapida e tenebrosa a dir poco, che, accompagnata da batteria e chitarra ci portano all’interno di questa song, molto bella e curiosa, in quanto richiama delle tematiche piratesche che coi Mercyful Fate in genere poco hanno a che fare. Lenta e tritatutto in principio, “quindici uomini…” col tempo si spacca letteralmente a metà, diventando forse il componimento più veloce del disco, senza però perdere le sue caratteristiche di base, per poi tornare di nuovo lento, e così via in un esaltante susseguirsi. Clamoroso il punto dove si sente intonare “Fifteen man and a bottle of Rum…”.
Siamo appena oltre la metà dell’ascolto complessivo quando ci imbattiamo nella title track, ovvero “Into the Unknown”. Essa inizia con un arpeggio delizioso, quasi ipnotico, che però inganna, in quanto dopo poco la sonorità si alza prepotentemente, con King a dominare con tutti i tipi di voce che
possiede, falsetto, corale, roco, e così via. A dire il vero a parte l’attacco e la voce di “Diamante” la canzone non mi sembra così bella da meritare l’onore di essere la title track. E’ vero che il numero di melodie presenti nella song è impressionante, e tali spezzoni, pur totalmente diversi, sono
ottimamente legati fra di loro, ma nel complesso non mi sembra che Into the Unknown sia la miglior canzone del disco, quella degna di rappresentarlo, forse perchè un pò sperimentale e non troppo diretta. In compenso tutti gli strumenti sono perfetti in ambito esecutivo. Finita questa a dir poco sperimentale, anche se in sostanza riuscita, title track, torniamo al classico sound dei Mercyful Fate con la bellissima “Under the Spell”. La velocità e la struttura della canzone in sè lasciano davvero senza fiato, King è spettacolare, così come tutti gli strumenti che lo contornano (a parte forse la batteria, un pò marginale in tutta la produzione). Non mi resta
altro da dire che non sia un “ascoltate Under The Spell”, perchè vale davvero il prezzo del biglietto. Esaurita anche Under, ci troviamo davanti a un qualcosa che forse solo King Diamond poteva pensare di mettere in un suo pezzo. Infatti, in totale assenza di strumenti, il Re Diamante intona una
suadente quanto perfida “ninna nanna”, che ci porta subito nell’atmosfera di “Deadtime”. Non è infatti una ninna nanna qualunque, ma un canto che porta l’anima di un piccolo bimbo a riposare “in pace”, nella morte. Subito
dopo questa parentesi si scatena un sonoro irrompente, brutale, un poco ripetitivo, ma maestoso, che rende particolarissima “Deadtime” rispetto alle altre song di questo album, ancora più oscura delle pur non leggere canzoni precedenti. Molto bello l’assolo del sempre mitico Denner, seguito a ruota
da quello dell’altrettanto positivo Shermann, in perfetto stile Mercyful Fate. E dopo la curiosa e buona “Deadtime” ci si para davanti subito un’altro pezzo che a me piace tantissimo, ovvero “Holy Water”. Molto allegre e allo stesso tempo pesanti nelle sonorità, le due chitarre e soprattuto il Re Diamante fanno davvero un lavoro magistrale in sede esecutiva, sopratutto all’inizio del pezzo. Grandiosa anche la lirica, da brivido, sembrano le parole che potrebbe dire un vampiro. E finita pure l’Acqua Santa, arriviamo all’ultima traccia di questo davvero ottimo “Into the Unknown”, ovvero alla seconda parte della saga dell’arabo matto, iniziata su Time. Entriamo dunque nel mondo di “Kutulu (The Mad Arab part two)”. Il titolo ovviamente fa capire che ci troviamo nel magico e malefico regno di Lovercraft, regno il cui mistero traspare chiaramente dalle note “arabeggianti” (normale, senno che mad arab sarebbe), e che chiudono un disco che a mio avviso rimane un passo avanti al pur buon precedente Time, e come già accennato anche un passo avanti rispetto all’album solista di King uscito nel 1996, ovvero “The Graveyard”, almeno sotto l’aspetto prettamente musicale (sulle liriche ci sarebbe da parlarne, in quanto The Graveyard ne ha di eccezionali).
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
1) Lucifer (3:28)
2) The Uninvited Guest (3:37)
3) Ghost of Change (4:47)
4) Listen to the Bell (4:43)
5) Fifteen Men (4:42)
6) Into the Unknown (4:22)
7) Under the Spell (3:30)
8) Deadtime (3:50)
9) Holy Water (3:19)
10) Kutulu (4:32)