«Oh, Zio, non è male ‘sto disco ma che è? Si saran mica riformati i Pantera senza Dimebag?» «Ma va là, sei proprio un babbo: ascolta bene, sono quegli altri che c’assomigliano, i Throwdown!»
Si scherza, ovviamente, ciò non toglie che l’adesione da parte dei Throwdown ai canoni stilistici imposti dalla band di Arlington a partire dal mitico “Cowboys From Hell” sia storicamente totale.
Il gruppo guidato dal granitico vocalist Dave Peters nasce nell’ormai lontano 1997 e, con ben sette studio album alle spalle tutti giocati sulle medesime coordinate stilistiche (e tra i quali ricordiamo “Venom And Tears” e “Deathless”), l’inserimento nella lista dei più coriacei e intransigenti portatori del verbo panteresco è assolutamente obbligato. Come accaduto nel caso dei suoi predecessori, anche tra i solchi del nuovo “Intolerance” non c’è quasi nulla che non sia stato già utilizzato ai tempi da Phil, Rex, Vinnie e Dime; ciononostante, ed è qui che sta (se vogliamo) la notizia, le canzoni, pur non originalissime, funzionano piuttosto bene.
Qual è il segreto? Beh, buona parte del merito se lo prende Dave Peters il quale, fermo restando l’enorme debito d’ispirazione nei confronti del miglior Phil Anselmo, si conferma cantante di livello altissimo, in possesso di un growl/scream assolutamente devastante e in grado di definire, in coabitazione con le brutali partiture strumentali, un mix formalmente impeccabile. Tuttavia, con ogni probabilità, il vero asso nella manica risiede nella capacità, da parte dei Throwdown, di andare dritti al sodo, proponendo pezzi brevi, asciutti e impattanti, valorizzati da ritornelli quasi sempre vincenti (come in “Fight Or Die”, “Defend With Violence” o nell’addirittura epica “Suffer, Conquer”) e da chitarre che mulinellano riff letali praticamente senza sosta.
Le piccole variazioni sul tema introdotte durante l’ascolto da brani come “Borrowed Time” e “Hardened By Consequence”, più vicine al metalcore, o dalla più classica e thrashy “Avow”, non modificano, infine, il giudizio su di un album nel suo complesso omogeneo, sia a livello qualitativo (con l’eccezione dell’opaca “Without Weakness”, decisamente sottotono), sia a livello contenutistico.
Se amate i Pantera e non vi ponete troppi problemi su questioni legate all’originalità della proposta, i Throwdown potrebbero fare al caso vostro; se, al contrario, non avete mai amato questo genere di sonorità o, semplicemente, preferite gli originali alle copie, lasciate tranquillamente perdere.
Nota a margine
Rimanendo nel novero delle follower-band dei Pantera, “Intolerance” batte agevolmente ai punti l’elefantiaco “The Devil Went Down To Holy Land” dei Betzefer nonostante quest’ultimo, sulla carta, presenti una maggiore eterogeneità di influenze. Le motivazioni sono sostanzialmente due: l’invidiabile pesantezza e compattezza di sound di “Intolerance” e l’eccessiva lunghezza dell’album degli israeliani, a causa della quale la sensazione che si prova ascoltandolo è la stessa che si prova bevendo un cocktail un po’ annacquato. Come dire: se le idee sono poche e nemmeno di prima mano, meglio puntare sull’impatto e sulla violenza che non su improbabili commistioni che allungano il brodo, alleggerendo il sound senza approfondirne i contenuti.