Recensione: Inverted Grasp of Balance
Quarto album per Monte Pittman, che due anni dopo “The Power of Three” pubblica questo “Inverted Grasp of Balance”. Ma chi è costui, potrebbe chiedersi qualcuno? Ebbene, vi ricordate quando Madonna, qualche annetto fa, imbracciò una chitarra e suonò il riff portante di un pezzo dei Pantera (A New Level, se non ricordo male) durante uno dei suoi live? Bene, il merito (o la colpa, a seconda di quanto voi siate Trve) di un simile gesto da parte della regina del pop fu proprio di questo texano, che allora era, tra le altre cose, il maestro di chitarra dei coniugi Ritchie e primo chitarrista presso la stessa signora Ciccone. Aneddotica a parte, i più edotti tra voi si ricorderanno probabilmente del barbuto chitarrista per la sua lunga militanza nei Prong, mentre i più fedeli rimarcheranno il fatto che lo seguivano ancora quando suonava nella sua prima band, i Myra Mains, ma la sostanza non cambia: qui ci troviamo davanti a un signore che sa suonare, e sa suonare anche bene. Per non farsi mancare niente, inoltre, il nostro eroe ha deciso che per questo “Inverted Grasp of Balance” si sarebbero dovute fare le cose in grande, e per non saper né leggere né scrivere ha reclutato Richard Christy dietro le pelli e Billy Sheehan al basso, confezionando un prodotto che, vi anticipo già, offre parecchia carne da mettere al fuoco.
Innanzitutto partiamo con la materia prima, un heavy metal robusto che in più di un’occasione sconfina nei territori del thrash propriamente detto; a questo punto aggiungiamo un chitarrismo che ricorda un mix tra Prong, Pantera e Black Label Society, con gli spettri di Dimebag Darrel e Zakk Wylde che aleggiano sul rifferama del nostro Monte; a condire il tutto giusto una spolveratina vocale qua e là (ma non di più) che ricordi i primi Tool. L’amalgama finale di questi elementi crea una proposta che, lungi dal puzzare di plagio o peccare di poca personalità, risulta invece estremamente gradevole ed ottimamente bilanciata, senza per questo perdere un solo briciolo di potenza ed aggressività. Fin dal riverbero introduttivo di “Panic Attack”, infatti, si percepisce che si sta per ascoltare qualcosa di molto interessante: coadiuvati da una sezione ritmica frastagliata, i riff si fanno di volta in volta sinuosi, fulminanti, marziali o avvolgenti, mentre l’estro di Monte incombe sì sulla composizione ma non l’appesantisce a discapito degli altri strumenti. Niente album di chitarristi per chitarristi, quindi, ma intrattenimento al tempo stesso forzuto ed elegante. L’attacco furibondo di “Arisen in Broad Daylight” lascia presto il posto a una traccia più quadrata e col giusto equilibrio tra melodia ed attitudine in your face, mentre la voce pulita ma ficcante di Pittman corona il tutto prima di perdersi nel marasma conclusivo che apre la strada alla successiva “Guilty Pleasure”, dominata da blast beat a pioggia intervallati da improvvisi rallentamenti che trasudano groove. Questa alternanza di mood diversi dona al brano un tono oppressivo, che trova coronamento nella sezione strumentale centrale e nell’intervento più narrativo dello stesso Pittman prima del finale. Un basso pulsante e sempre in evidenza caratterizza “The Times are Changing”, il cui tono apparentemente più melodico e rilassato viene sferzato da improvvisi irrobustimenti del suono, salvo poi esplodere nell’ottimo assolo. “Double Edged Sword”, per parte sua, trasuda Black Label Society da tutti i pori: tempi spezzati e nervosi, riff ipnotici ed attitudine vocale che richiama il biondo Zakk ad ogni piè sospinto. Il rallentamento centrale prelude un assolo in cui si sente perfino un certo profumo country, che viene a sua volta spazzato via dal ritornello che traghetta verso un finale più scandito, duro e marziale. “Cadabra”, a prima vista, non sembra altro che un banale intermezzo strumentale utile solo a blandire l’ego chitarristico del nostro texano, ma in realtà si rivela comunque, pur nella sua breve durata, un pezzo interessante e molto atmosferico, capace di saltellare tra l’inquietudine diffusa ed improvvisi squarci di serenità.
“Pride Comes Before the Fall” torna ai riff riverberati dell’opener, che donano al brano quel pizzico di asetticità che non guasta: la canzone alterna momenti più smaccatamente thrash ad altri più melodici ed accessibili, condensando in meno di quattro minuti un ottimo compendio di quanto è possibile trovare in tutto l’album. Con “California” si rallentano i ritmi per indulgere nella pesantezza (a tratti anche indigesta) e nel groove più caciarone: la lezione di scuola Wylde, sfoltita dei suoi elementi più tipicamente southern, si fonde con i riff compressi che resero famosi i Pantera per creare un suono in costante bilico tra i due mondi anzidetti. La successiva “Be Very Afraid” si spinge un po’ più verso i lidi del rock, presentando melodie distorte ma facilmente digeribili anche da chi non mastica metallo pesante, le quali sfumano nei territori del thrash solo nella seconda metà del brano, con l’assolo che apre la strada all’improvvisa accelerazione che, a sua volta, ci porta al finale ed alla successiva “Obliterated”, stavolta cocciutamente thrash. Il brano, uno strumentale di quasi cinque minuti, consente al nostro Monte di esibirsi in un territorio, a detta di chi scrive, non facilissimo e, ciononostante, evita con una certa eleganza i due principali problemi che affliggono i componimenti strumentali, ovvero i temuti effetti canzone senza testo e fusione di assoli*.
“Skeleton Key” torna a un approccio più rock, puntando su melodie facili ma non per questo scialbe e su una struttura da classifica proprio prima del pezzo di chiusura, che prende le distanze, almeno in parte, dal resto dell’album: “New Blood Keeps us Alive”, accompagnata dai rumori di un temporale indolente, è una ballata acustica che profuma di Black Label Society privata però della voce alcolica di Zakk Wylde. L’improvvisa entrata in scena degli strumenti elettrici nella parte centrale enfatizza ed ispessisce le melodie, tramutando il brano in una vigorosa cavalcata heavy-thrash prima di scivolare di nuovo nell’indolenza, cullati dal rumore della pioggia e da tuoni lontani.
Qualora non si fosse ancora capito lasciatemelo dire chiaramente: “Inverted Grasp of Balance” è un signor album, costituito da composizioni al tempo stesso rabbiose ma non per questo cacofoniche, pesanti ma non per questo indigeste, e si candida di prepotenza a far parte della playlist del sottoscritto (nonché di molti fra di voi, ne sono sicuro) per parecchi mesi a venire.
Ascolto consigliatissimo.
*: per canzone senza testo intendo quel componimento che, più che sembrare una traccia pensata fin dall’inizio per essere solo strumentale (con tutto ciò che tale scelta comporta a livello di scrittura e, diciamo così, di atmosfera) sembra una traccia normale a cui siano state tolte le lyrics in un secondo momento; parimenti, per fusione di assoli intendo, chiaramente, quelle canzoni che sembrano solo un collage di assoli di chitarra collegati assieme senza dare alla traccia una sua struttura precisa.