Recensione: Invictus
Quanti potrebbero affermare che un sequel raramente supera il predecessore? Figuriamoci il sequel del sequel… Un disastro globale… Eppure il numero perfetto (tre) è da sempre associato ad opere d’arte divenute poi quasi oggetto di culto. Non mi inalbero in esempi incomparabili, ma ne troverete in qualsiasi campo artistico, se solo ci pensate.
Invictus nasce come terzo atto della trilogia iniziata con i due “Marriage Of Heaven And Hell”, e ne è la logica, trionfale, conclusiva celebrazione: l’epico finale per uno dei più grandi cicli che la storia del rock ricordi. Lo so, non sono molti, ma se questo non basta, lo reputo uno dei migliori metal album di sempre.
Rispetto ai suoi due predecessori è un po’ più ruvido ed aggressivo, rimanendo al contempo pomposo ed epico, come dev’essere l’heavy metal. Diminuiscono le parti di pianoforte, anche se rimangono in diversi notevolissimi intermezzi strumentali tra i pezzi, mentre il lavoro vocale sugli altissimi registri da mezzosoprano di David Defeis sembrano essere più musicali e melodici, alternati alle sue solite screaming graffianti e poderose.
Una voce narrante, con effetti di fondo secondo la tradizione VS, fa da opener in “The Blood Of Vengeance”, e dà il via alla marcia trionfale che parte subito con “Invictus”. Da subito si rileva il rinnovamento in termini di aggressività del sound dei Virgin Steel, con un riffing più complesso rispetto al passato da parte di Ed Pursino, mentre i soli sono, al solito, meravigliosi. Il basso di Rob DeMartino rintrona come il sonaglio di un serpente, provvedendo al distante ma potente fragore che avvolge il brano. Il drumming di Frank Gilchrist è eccellente, anche se pià avanti nel disco troveremo esempi migliori del suo talento. Le liriche sono per lo più
affidate al Defeis più stridulo e lo-range, con l’eccezione di alcune backing high pitched sull’ottimo chorus.
Chitarra e tastiera si intrecciano nel mezzo della canzone in maniera superlativa, con una sensazione di reminiscenza KingDiamond-iana.
Segue l’epicissima “Mind, Body, Spirit”, con un’azzeccata combinazione delle vocals basso/sporche (sulle strofe e sul ritornello) e quelle alte/solenni (sul bridge e sul finale). Qualche effetto pulito sulla seconda strofa, e riparte l’avvincente sezione ritmica di Rob e Frank. Le corde della chitarra di Ed fumano, mentre il suo lavoro ritmico ricorda per velocità le metal teutoniche. Stupendo il prog-rock sound anni ’70 (Uriah Heep, in particolare) della seconda metà del pezzo, con sovrapposizioni organistiche e vocali. Il finale è spettacolare, gustatevelo…
La track successiva è “In the Arms of the Death God”. Il titolo-scioglilingua nasconde un interludio strumentale che scandisce uno dei “temi” musicali dell’intero album, che verranno richiamati lungo tutto Invictus, arricchiti con sovraincisioni e arrangiamenti di chitarre e tastiere.
La prima mastodontica live-hit arriva con “Through Blood and Fire”, introdotta da un riff davvero catchy, di quelli che entrano definitivamente in testa al primo ascolto. Come se non bastasse, il ritornello è assolutamente devastante: vocals maestose e tastieroni sinfonici contribuiscono ad avvalorare l’impressione complessiva per questa canzone, che per quanto mi riguarda può riassumersi in una “medievalizzazione” dei migliori Iron Maiden. Edward si propone in un paio di assoli alla Brian May prima del trionfante finale, in cui già appaiono gli echi di “Death God”. Entusiasmante.
Non possiamo che essere d’accordo con lo stesso David DeFeis, quando definisce “Sword of the Gods” ‘un pezzo epico nella tradizione VS’, dal momento che le brucianti chitarre, le ossessive tastiere e le altissime vocals fanno di questo un pezzo da ricordare. La qualità operistica del chorus lascia intravedere la direzione che i Nostri prenderanno con la successiva produzione.
Un trasportante abbrivio pianistico e un numero vocale d’alta scuola compongono la dolcissima e breve “God Of Our Sorrows”, che prosegue con una deliziosa sensazione di prog settantiano, altrove avvertita nell’album. Se solo fosse durato un po’ di piu’…
“Vow of Honour” anticipa il chorus della successiva “Defiance”, cantato in falsetto Defeis-style sopra uno slegato sottofondo musicale dalle tinte mistiche.
Ed arriva “Defiance, un’altra travolgente song della power band più raffinata di New York. Ci troviamo davanti a un’infiammata cavalcata con un bel groove mid-tempo cui difficilmente si resiste. Il ritornello è sicuramente la parte più dirompente della canzone, e il modo in cui le liriche vengono combinate con la musica mi ha ricordato le atmosfere del primo Highlander, ovvero “A Kind Of Magic” dei Queen (band peraltro adorata da David). In ogni caso, le sabbiose vocals, come pure il solo di Pursino, sono magnifiche.
Dietro il lungo titolo di “Dust From the Burning (A Season in Purgatory)” si cela la track più aggressiva del disco, che mostra un batti e ribatti di riff e un drumming solido e possente, sui quali si alternano i ruggiti e gli acuti di Defeis. Classicissimo il finale.
Non potrebbe esserci titolo migliore di “Amaranth” per descrivere la calma musicale della breve e introspettiva strumentale che precede “A Whisper Of Death”, altro pezzo lungo ed epico che inizia ricordando “Weeping of the Spirits” (), sia per il lavoro sulle vocals, sia per quello di chitarra, dal risultato sognante e mistico. Ho percepito anche echi Uriah Heep (e Demons&Wizards, e chissà quante altre), prima di arrivare ai sette minuti di furia metallica, epicità e qualità, con cori accattivanti e chitarre pungenti. Ancora una volta il drumming non è esagerato, con le rullate giuste al punto giusto, semplicemente perfetto per creare l’atmosfera desiderata. Così come il lavoro di Rob al basso, robusto e gagliardo.
Per nulla inferiore alla stratosferica media qualitativa degli altri pezzi è “Dominion Day”, insistente nella melodia corale, riproposta in diverse salse nella timbrica e nei toni cangianti di Defeis. L’atmosfera trionfale e apocalittica è resa dai maestosi passaggi synth e dal fiero riffing.
Maligna e oscura all’inizio, “A Shadow Of Fear” si trasforma gradualmente in una canzone più epica e lievemente brillante, producendo un incredibile muro di suono sotto l’evidente contraddizione iniziale. Il pezzo è potente, con una grandiosa linea di basso e alcune interessanti trovate tastieristiche sparse per tutta la durata del brano.
Segue un sognante riarrangiamento del tema principale dei due dischi precedenti, di gran gusto, raffinatissimo, quasi orgasmico, semplice e ovvio come il suo titolo, “‘Theme’ from ‘The Marriage of Heaven and Hell'”.
Non saprei cosa aspettarmi di più da un disco del genere, e qui sta la vera progressione, il vero climax, il vero capolavoro: “Veni, Vidi, Vici”. Un mastodontico (dieci minuti) esempio di epicità che conclude il ciclo con un drumming muscolare, un basso palpitante e un fittissimo guitar work. Come recita il chorus “Veni, Vidi Vici” vi conquisterà tutti! Dal bridge vittorioso al ritornello strappaconsensi. Anche questa canzone, ahime, come tutte le cose, giunge alla conclusione, qui interpretata in grande stile con un tripudio di applausi e acclamazioni, atte a sottolineare il trionfo degli uomini sugli Dei, e, retoricamente (ma neanche troppo, se leggete i testi), ad incoronare nella gloria Re Defeis.
Invictus, come ho indirettamente detto più volte in questa recensione, è un’esplorazione trionfale dello spirito umano, e tale livello di introspezione e di ispirazione, per quanto concerne il sottoscritto potrebbe essere sufficiente per leggere in direzione progressive la proposta dei Virgin Steele. Tuttavia, le etichette hanno davvero poco conto, di fronte a un’opera di tale portata; ci si può solo inchinare dinnanzi a tanta opulenza, e riconoscere a Defeis ciò che è di Defeis.
Tracklist:
- The Blood of Vengeance
- Invictus
- Mind, Body, Spirit
- In the Arms of the Death God
- Through Blood and Fire
- Sword of the Gods
- God of Our Sorrows
- Vow of Honour
- Defiance
- Dust from the Burning
- Amaranth
- A Whisper of Death
- Dominion Day
- A Shadow of Fear
- Theme: Marriage of Heaven and Hell
- Veni, Vidi, Vici