Recensione: Invincible
Inizio la recensione con un “disclaimer” forse per i più impopolare: è più che normale che un artista, per quanto storico, in una determinata epoca subisca le suggestioni di chi sta dettando le regole in quel preciso momento. Non è un dramma, Alice Cooper lo insegna: dal 1986 in poi lo shock rocker ha smesso di creare qualcosa di inedito (ed influenzare) per essere lui stesso influenzato da quanto stava spopolando allora. Glam/street metal prima, grunge, industrial/numetal poi, revival hard rock e chi più ne ha più ne metta, mantenendo sempre e comunque intatta e riconoscibilissima la sua identità. Questo processo si chiama “adattamento” ed è una strategia efficace che gli esseri viventi mettono in atto da ere geologiche. E da tempo tutti sappiamo che dai Demon non possiamo certo aspettarci un disco di pura NWOBHM.
Perchè questo preambolo? Perchè credo che citare i Ghost – gruppo che più di qualunque altro stimola l’ambivalenza emotiva dei lettori – in una recensione dei Demon potrebbe far stracciare le vesti a più di un “difensore della fede”. Ma se qui parlo di influenza dei Ghost, ne parlo – giusto per un paio di brani – non in termini compositivi, bensì di arrangiamento, produzione ed intenzione. Se lo spettro (!!) dei Ghost aleggia discreto in una produzione dei Demon, perchè non considerarlo un valore aggiunto? Provate ad ascoltare i cori e l’uso delle chitarre soliste armonizzate nell’iniziale ‘In My Blood’: mi sto sbagliando? Oppure l’incalzante incipit di ‘Rise Up’. Tranquilli, quando il leggendario Dave Hill entra in scena, è evidente che si è all’ascolto di un disco dei Demon!
Invincible celebra il quarantacinquesimo anniversario della band consegnando all’ascoltatore tanta carne al fuoco: il groove blueseggiante della cadenzata ‘Ghost From The Past’, con il suo irresistibile botta-e-risposta tra i cori e la voce solista di Hill. E la lenta, apocalittica ‘Hole In The Sky’, che insieme alla potente ‘Cradle To The Grave’ riporta alla mente l’epicità dei Black Sabbath di Tony Martin o degli Uriah Heep di John Lawton. Un altro graditissimo fantasma aleggia tra i riff della title-track ed è quello del mai troppo compianto Criss Oliva dei Savatage. Il disco si conclude con la nostalgica ‘Forever Seventeen’, semiballad che non manca però della potenza presente in tutte le tracce di un album che non delude, dando la possibilità a vecchie e nuove generazioni di apprezzare un artista come Dave Hill che – indomito da oltre quattro decenni – regala ancora emozioni possibili solo alla cara vecchia scuola.