Recensione: Inviolate
La sostanza del nuovo album solista di Steve Vai è manifesta già nella copertina di Inviolate. Il visionario chitarrista ormai sessantenne (reduce da alcune traversie recenti) imbraccia una chitarra delle meraviglie, chiamata Hydra, che racchiude tutta la genialità e il desiderio di sperimentazione che l’alieno continua a coltivare nella sua carriera solistica. Abbiamo una chitarra 12 corde, una 7 corde, un basso (parzialmente fretless), pure una miniarpa e orpelli a non finire. Un gioiello per gli occhi, tanto che anche il buon Ola Englund resta basito nel commentare questo strumento sui generis… Va riconosciuto a Steve Vai il merito di vivere ancora al servizio della musica, tra uscite acustiche, orchestrali e rock (senza contare le ospitate, non ultima quella con gli Star One). Ormai è un punto di riferimento assoluto, un guru-shredder agli antipodi tanto dal barocco di Malmsteen quanto dal sound delle nuove leve chitarristiche. Il sound speziato, rigoglioso e visionario del suo nuovo album non può non confermare il suo infinito talento e regalarci un altro tassello della sua discografia in continua evoluzione.
Tutto inizia con “Teeth Of The Hydra”, opener che già dal titolo fa intendere come il nostro guitar hero voglia cimentarsi con lo strumento tentacolare concepito per dare sfogo a tutta la sua creatività. In Steve Vai la tecnica non è mai fine a se stessa, il design sposa l’estro, quindi non stupitevi se questi primi cinque minuti di Inviolate vi trascineranno in una susseguirsi caleidoscopico di atmosfere disparate. Ascoltare questo brano è come sentire il respiro dell’idra che sorge sornione, a tratti si acquieta e poi torna ad esplodere con lampi di puro genio. Non mancano sonorità orientali, ma anche ottimo rock e note droppate che svecchiano il sound di Vai senza però snaturarlo, impossibile non riconoscere il suo trademark.
Frastornati dopo un incipit così variegato e onirico, è un piacere proseguire il viaggio con “Zeus In Chains”, primo dei due pezzi dedicati a una divinità del pantheon greco. Diciamolo subito, parliamo di un pezzo con un grande potenziale, orecchiabile, catchy, con un virtuosismo tangibile e pure linee di basso con un loro perché. Il solo di Vai che inizia al quarto minuto è qualcosa di davvero appagante, chapeau a un musicista che si dimostra ancora in stato di grazia. Uno dei momenti migliori di Inviolate. In “Little Pretty” c’è spazio per note semiacustiche (tanto care a Guthrie Govan) e un mood chiaroscurale; è il pezzo più lungo in scaletta (uno dei tre attorno ai sei minuti) e per certi versi un momento interlocutorio nell’economia del disco. Al netto di questa premessa, tutto scorre in modo fluido e possiamo ricaricare le batterie per proseguire l’ascolto. Anche “Candle Power” non preme sull’acceleratore ma stupisce con un ritmo funky e divertito; ci sono alcune dissonanze volute, la sezione ritmica è in bella vista e la chitarra elettrica si allontana temporaneamente dai lidi rock. È bello vedere che Steve Vai si ritaglia ancora momenti di divertissement debitori del dettato zappiano…
Ritroviamo lo shredding in “Apollo In Color”, Vai incanta come sempre nell’uso del distorsore; sul finire del terzo minuto è la volta di un altro cammeo solistico seguito da un highlight di basso (impreziosito da alcuni armonici). In sostanza i due pezzi teofori sono tra i migliori in scaletta. Convince pure l’attacco di “Avalancha”, potente e diretto, con doppio pedale e attitudine hard rock quasi metal. Sicuramente il brano più speed del disco che nella sua seconda parte permette a Steve Vai di sbizzarrirsi al tapping. Immancabile, prima dell’epilogo, “Greenish Blues” è l’ennesimo tributo alla musica blues. Il chitarrista americano intesse linee chitarristiche tanto esili quanto preziose, creando un ricamo che lascia l’ascoltatore estasiato. Più che un album strumentale sembra un canto libero che riesce a trasmettere un senso che va al di là delle parole. La magia dura alcuni minuti poi tutto rallenta per lasciare spazio all’ultima coppia di brani. “Knappsack” è un’altra perla, con un tributo a Frank Zappa nel magnifico assolo centrale, tanto estremo e prolungato da sembrare irreale. Ascoltatelo a ripetizione! Il sipario cala con i ritmi dilatati di “Sandman Cloud Mist”, un commiato che ha in sé una nota di nostalgia, elemento immancabile nel sound di Steve Vai.
Alla fine dell’ascolto di Inviolate si è di buon umore, ci si sente ricaricati dall’energia e dalla creatività proposte dal mastermind statunitense. L’album per certi versi funziona meglio di Modern Primitive e The Story of Light, e per poco non raggiunge le vette assolute di Sex & Religion o Passion and Warfare. Lunga vita a Steve Vai, gli auguriamo di tornare in tour e vivere la vita da musicista iconico qual è sempre stato.