Recensione: Io sono nato Libero
Io sono nato Libero è il Terzo album per una delle formazioni più importanti della scena progressive italiana e mondiale. Dopo solo un anno dalla pubblicazione di due dischi immensi come “Banco del mutuo soccorso” e “Darwin”, il gruppo riesce a regalarci un’altra gemma straordinaria, una delle produzioni migliori, caratterizzata dalla voce di Francesco Di Giacomo e dagli ottimi arrangiamenti dei fratelli Nocenzi. È durante la registrazione di questo album, inoltre, che viene introdotto come ospite il chitarrista Rodolfo Maltese, il quale prenderà poi il posto di Marcello Todaro nei dischi successivi. Sebbene il disco non possa considerarsi propriamente un concept album, c’è un filo conduttore che, più o meno esplicitamente, collega i vari brani: il tema della libertà.
L’oggetto dell’analisi viene eviscerato con attenzione ma, piuttosto che raccontando una storia, il gruppo sceglie di procedere con una trattazione per episodi in cui il filo conduttore viene percepito quasi sottopelle; è necessaria un’attenta riflessione durante e dopo l’ascolto per potere apprezzare pienamente il messaggio contenuto in Io sono nato Libero.
La lunga suite d’apertura, Canto nomade per un prigioniero politico, è uno dei brani migliori mai composti dal gruppo: descrivendo le sofferenze di un uomo incarcerato per motivi ideologici, il Banco realizza un malinconico inno alla libertà di pensiero, un omaggio alla forza delle idee ed a coloro che decidono di seguire i propri ideali, affrontandone le conseguenze. Una tematica universale e sempre attuale che viene trattata senza impeti urlati o cedendo ad una contrapposizione aggressiva che pure avrebbe trovato una cornice negli anni in cui il pezzo veniva scritto.
Il lamento del prigioniero è mesto, può apparire quasi rassegnato, caratterizzato dalla consapevolezza che la condanna è arrivata per l’indolenza di coloro che l’hanno giudicato e che, pertanto, non ci saranno ulteriori discussioni; l’idea scomoda verrà semplicemente repressa e non ci sarà alcun tentativo di comprensione. Nonostante ciò, non c’è commiserazione ma una ferma espressione della propria volontà, affermare il proprio sé e le proprie idee perché sono queste che ci permettono di evitare di sprofondare in un’esistenza piatta e grigia.
Dal punto di vista musicale, il brano è un vero e proprio manifesto del prog rock italiano, una compenetrazione di chitarre acustiche, assoli di tastiere e sintetizzatori che si alternano e si amalgamano sottolineando, ancora una volta, il livello tecnico e creativo del gruppo. Difficile da notare durante i primi ascolti ma interessante come il tema musicale della traccia venga ripreso successivamente in “Dopo… niente è più lo stesso”, una scelta stilistica che accosta i due brani più “politici” dell’album.
Non mi rompete è uno dei cavalli di battaglia durante i concerti, uno dei brani più orecchiabili usato, in questo frangente, per stemperare il clima creatosi dopo l’ascolto della prima canzone. L’ascoltatore si trova di fronte ad una ninna-nanna, una pacata nenia contro coloro che vogliono a tutti i costi distoglierci dalle nostre occupazioni, credendo magari di essere in possesso di verità assolute, intervallata da una briosa “schitarrata” e dai vocalizzi di Di Giacomo. Il ritmo blando della ballata e la sua allegra continuazione sono lo strumento ideale per predisporre il cervello all’impatto con la traccia successiva, il brano più surreale dell’intero album: La città sottile. Quella che viene descritta è una metropoli che potrebbe provenire dalla penna di Calvino o dal delirio psichedelico di un architetto: gli edifici poggiano gli uni sugli altri in precario equilibrio, oscurando il cielo nelle loro sovrapposizioni, strutture metalliche si intersecano creando una gabbia che richiama quella evocata in “Cento mani e cento occhi”, contenuta nel precedente album. L’impotenza dell’uomo dinnanzi alle meccaniche di processi che non riesce ad assimilare è descritta dall’immagine del pazzo padrone nudo che, un giorno, si getta nel vuoto, forse urlando, forse ridendo, in bilico tra demenza e soddisfazione. Un brano difficile, sia per i contenuti che per l’impostazione musicale, caratterizzata dalla netta preponderanza del pianoforte sugli altri strumenti e da versi onirici, quasi recitati.
Non pago di quanto ci ha dato sinora, il Banco incalza con Dopo… niente è più lo stesso, un’altra traccia di riflessione, questa volta sull’inutilità della guerra che, anche al suo termine, lascia ferite indelebili in coloro che hanno combattuto e sono sopravvissuti. Mentre la popolazione sofferente pare riuscire a riprendersi dai traumi, il ritorno del guerriero non ha nulla di glorioso, lo straniamento dai festeggiamenti è totale, un disagio strisciante pervade l’animo dell’eroe, nemmeno l’amore ha lo stesso sapore dopo ciò che è stato. Come un automa, prosegue dritto per le strade, la rabbia nei confronti di coloro che lo hanno costretto ad imbarcarsi in una guerra che non gli apparteneva, rimane repressa all’interno, unico barlume di sentimento umano all’interno di un guscio vuoto.
La voce di Di Giacomo riesce ancora, proprio come ha fatto nella prima traccia, ad esprimere il senso di sofferenza di colui che ha perso la propria individualità, notevole il passaggio in cui contrappone messaggi di vuota retorica propagandistica alle amare riflessioni di chi, invece, si è scontrato con la dura realtà, rimanendone segnato. Gli strumenti musicali seguono il ritmo della scena, producendo accordi dimessi e ritmi solenni per sottolineare l’inquietudine del protagonista, suoni che crescono e diventano roboanti quando, invece, viene descritta la vita che riprende, il treno che arriva, la festa della cittadinanza.
L’ultimo brano, Traccia II, è uno strumentale, sicuramente il più frenetico di tutto l’album, un epico crescendo che, già dal titolo, richiama il pezzo di chiusura del primo disco, di cui si pone come ideale seguito. L’epico crescendo raggiunge la conclusione in un tempo quasi record, lasciando l’ascoltatore estasiato da tanta magnificenza, ormai consapevole di aver appena finito di assaporare uno degli album migliori del periodo d’oro del progressive.
Con ogni probabilità il Banco ha raggiunto con questo album l’apice della sua capacità compositiva: dopo i primi tre capolavori, infatti, continuerà con delle produzioni buone ma non certamente all’altezza delle precedenti sino alla fine degli anni Settanta. Il decennio successivo sarà caratterizzato da una ricerca di sonorità più orecchiabili e da un generale abbandono dell’impostazione progressive. Un esperimento comprensibile, dettato probabilmente dalla volontà di sondare nuove sonorità e di raggiungere una fetta maggiore di pubblico (emblematica la partecipazione al Festival di Sanremo del 1985); purtroppo, i risultati sono stati deludenti, la produzione del periodo è consigliata solamente a coloro che vogliono possedere tutta la discografia di uno dei gruppi migliori della storia della musica italiana. Per tutti gli altri, è sufficiente un ascolto obbligato dei primi tre lampi di genio prodotti dal gruppo romano, veri e propri monumenti ad un prog rock colto e curato, capace di varcare i confini del nostro paese ed essere riconosciuto come vero e proprio classico.
Damiano “Kewlar” Fiamin
Discutine nel forum sul topic relativo
Tracklist:
Canto nomade per un prigioniero politico – 15:53
Non mi rompete – 5:03
La città sottile – 7:10
Dopo… niente è più lo stesso – 9:54
Traccia II – 2:39
Formazione:
Vittorio Nocenzi – organo, clarino, voce
Gianni Nocenzi – pianoforte, clarinetto piccolo mib, voce
Marcello Todaro – chitarra elettrica, chitarra acustica, voce
Renato D’Angelo – basso elettrico
Pierluigi Calderoni – batteria
Francesco Di Giacomo – voce
Rodolfo Maltese – chitarra acustica