Recensione: Iron Flesh
Tornano i bombardieri nucleari Atomwinter con un nuovo missile intercontinentale sulla rampa di lancio: “Iron Flesh”. L’album segue il demo “Atomwinter” (2010), il full-length “Atomic Death Metal (2012) e l’EP “Death Doomination”, ed è il frutto del lavoro di una band composta di musicisti tedeschi di lunga esperienza che, nel 2010, appunto, si sono messi assieme per formare un combo dalla filosofia artistica senza compromessi.
Una filosofia che ha un nome ben preciso: ‘old school death metal’, inteso nella sua accezione più vera, più rispondente alla definizione primigenia. Quella, cioè, che vede il death metal in una fase protomorfa. Risultato ancora nebuloso, confuso e convulso dell’estremizzazione del thrash metal, in primis, e del black metal, poi. Pieno zeppo di sulfurei richiami alle potenze oscure che governano la parte malata dell’esistenza, che dipingono scenari apocalittici, di guerra eterna, di combattimenti all’ultimo sangue, di morte perenne.
Sensazioni, emozioni, percezioni che fondano sulla negatività le proprie strutture; benissimo interpretate dallo stile tetro, grigio, morboso dei quattro loschi figuri provenienti dalla Bassa Sassonia. A volte lenti, dimessi, che trascinano i loro riff alla maniera del doom (“Beheaded”). Proprio per approfondire sino all’esasperazione l’oppressione derivante dalla consapevolezza che il genere umano, così com’è adesso, non ha alcun futuro, innanzi a sé. Quasi un lamento, che gorgoglia come sangue fresco dall’ugola di O. Halsschneider (“Tank Brigade”) per schizzare ovunque a seguito delle veementi, improvvise e brutali accelerazioni dei primordiali blast-beats di P. Walter.
È evidente che non è l’originalità, quello che si deve trovare in “Iron Flesh”. L’old school è old school, e quindi le componenti stilistiche non sono rivoluzionarie, anche se occorre rimarcare che gli Atomwinter riescono a scavare nelle pieghe del tempo come pochi altri, risalendo addirittura a certi echi emessi a loro tempo da act seminali quali i nostrani Bulldozer (sic!) (“Iron Flesh”), primissimi Sodom – fra gli antesignani delle tematiche di guerra nucleare e non – , Asphyx e Bolt Thrower, tanto per citarne alcuni.
È altrettanto evidente che i Nostri proseguono per la loro strada, coerenti nel bilanciamento temporale fra 1985 e 2015, adottando quanto dovuto per dare alle stampe un prodotto più che buono dal punto di vista esecutivo, seppur – come scritto – dal taglio rozzo e arcaico. Del resto, esagerazioni sonore come le ipervelocità di “Purify The Spawn” sono il frutto dei tempi moderni, ma in “Iron Flesh” c’è sempre la quadra fra passato e presente. Una capacità indubbiamente preziosa, in seno agli Atomwinter.
Quel che manca, nel platter, invece, è un po’ di freschezza compositiva. Scritto così sembra un’antitesi bell’e buona ma, in effetti, le song di “Iron Flesh” soggiacciono troppo al genere, risultando con ciò manifestamente semplici e quindi, a lungo andare, ripetitive. Scontate. Senza che ci sia quella luce (anche in questo caso è si tratta di un’apparente controsenso…) in grado di rendere memorabile la sequenza dei brani.
Un lavoro discreto, insomma, sicuramente una manna per gli appassionati, altrettanto sicuramente una noia per gli altri. Comunque sia, in fin dei conti, gli Atomwinter il loro obiettivo l’hanno raggiunto: il freddo glaciale dell’inverno nucleare.
Daniele D’Adamo