Recensione: Iron Maiden
Non c’è sasso sulla Terra che non sappia chi siano gli Iron Maiden, non c’è essere umano fuori dal giro che alla parola ‘metal’ non risponda con il binomio Iron Maiden – Metallica, non c’è film dove il ragazzo disadattato di turno, con jeans stracciati e gilet di pelle, non abbia in camera un poster degli Iron Maiden. Nulla di strano: sono i soliti stereotipi da “estranei”, supportati per sentito dire o per partito preso. Opinioni (che per la verità è meglio ignorare e lasciarsi alle spalle) su di un gruppo che probabilmente più di ogni altro, giustamente o meno decidetelo voi, ha rappresentato e rappresenta un intero genere. Le note veramente dolenti stanno, almeno a parere del sottoscritto, nel fatto che anche chi si professa metallaro spesso e volentieri soffra di un morbo assai simile: tutti pronti a esaltare senze riserve The Number of the Beast come miglior disco del combo londinese e a eleggere capolavoro indiscusso di una carriera ventennale un pezzo come Fear of the Dark – tanto per fare due esempi – dimenticandosi del biennio 1980/81, stagioni dove la Vergine di Ferro ha dato, a parere di molti, il meglio di sé. Strano poiché il comandamento numero uno, assolutamente non condiviso da chi scrive, ma a quanto pare stampato a caratteri infuocati sulla bibbia del vero metallaro ottantiano, recita così: “il vecchio meglio del nuovo”.
Non c’è tempo per riflettere quando i fischi e la marcia produzione della spettacolare Prowler irrompono nella vita di chi, oggi e soprattutto ieri, ha deciso di avventurarsi nell’ascolto di questo capolavoro. Una naturale evoluzione dell’hard rock, un suono grezzo e incurante quasi alla Raven, una grinta vocale e un riffing trascinante che non può passare senza mietere vittime. In un genere come l’heavy metal primordiale non servono grandi cose e grandi mezzi tecnici quando si hanno in mente le idee vincenti, lo testimoniano i due accordi, le sirene e la grinta di Sanctuary, degna continuazione del viaggio intrapreso con l’opener. Messo da parte lo slancio quasi adolescenziale (passatemi il termine) dei primi due episodi, Iron Maiden mette in luce una composizione più matura e varia come Remeber Tomorrow per poi giungere all’azzeccatissimo matrimonio tra il ritornello e l’incedere di basso-batteria di Running Free, una coppia che paga una certa ripetitività con la sicurezza di un destino che la vuole un inno in sede live. Quando tutto pare essere orientato verso il connubio tra l’hard rock quasi festaiolo dei fine anni ’70 e un embrionale heavy metal ormai pronto a schiudersi con un boato inimmaginabile, ecco giungere una composizione sublime come Phantom of the Opera. Doti e maturità sorprendenti al servizio di un pezzo che rende il trambusto della detonazione ancora maggiore. Se per attitudini personali questi setti minuti possono posizionarsi ovunque all’interno di una ideale classifica (della quale, ovviamente, nessuno sente il bisogno), qualitativamente il brano si eleva probabilmente a miglior pezzo dell’album. Sulle stesse sonorità procede la bellissima strumentale Transylvania dal quale epilogo sorge un altro pezzo riflessivo, cauto e melodico come Strange World. I dolci lead di chitarra guidano a una inaspettata grande prestazione di un Paul DiAnno da ballad assai lontano dall’irriverenza dei pezzi più tirati. La parentesi più ragionata si infrange sull’accoppiata conclusiva composta dalla bellissima Charlotte The Harlot e il devastante inno finale Iron Maiden, manifesto di un album e una carica che, ahimè, nei Maiden non vedremo più.
Prima che Steve Harris scoprisse le gioie di sfornare un album all’anno con lo stesso giro, prima che giungesse Bruce Dickinson con le sue linee vocali melodiche e, concedetemelo, abbastanza prevedibili (senza nulla togliere alle doti e al talento del frontman inglese, sia chiaro), prima che un successo crescente portasse via la band dalle strade della Londra dei primi anni ottanta, rubandone la freschezza a favore di schemi e stereotipi di songwriting fin troppo ostentati… esistevano quelli che per molti, me compreso, erano e sono i veri Iron Maiden. Una band aggressiva e travolgente, con un singer grezzo e potente da far invidia a non poche delle band più estreme che al tempo cominciavano a proliferare in Germania e negli States. Quegli Iron Maiden sono questi Iron Maiden, sono la band che ha dato alla luce un debutto spettacolare, fresco e irruente, vario come non mai, capace di influenzare centinaia di band e di essere ancora oggi, insieme al successivo Killers, un pilastro di un’epoca gloriosa e fertile come la tanto decantata NWOBHM.
Come credo sia palese dalla recensione, questo è per me l’apice assoluto della formazione anglosassone. Tutto resta però un parere personale, fondato e radicato, ma ovviamente senza pretese di verità assoluta. Lo stesso voto, seppur altissimo, non è un 100 e non supera nè eguaglia quelli dati da altri redattori a produzioni degli Iron altrettanto osannate. Aggiungo che sarebbe stato fin troppo facile e probabilmente inutile mettersi in coda alla massa a cantare le lodi fine a se stesse di un album storico e trascendentale come questo, limitandosi a esaltare una delle band più seguite e conosciute del globo. Senza ombra di dubbio gli Iron Maiden non hanno bisogno dell’appoggio di TrueMetal per far conoscere la propria musica e il proprio nome. Prendete quindi la mia analisi come tale, senza leggere tra le righe guerre sante o crociate musicali: che preferiate l’era Dickinson o meno, che amiate i Maiden oppure no, sono sicuro condividerete il fatto che l’heavy metal fa tappa obbligatoria da qui.
Wherever you are, Iron Maiden’s gonna get you, no matter how far.
Tracklist:
1. Prowler
2. Sanctuary
3. Remeber Tomorrow
4. Running Free
5. Phantom Of The Opera
6. Transylvania
7. Strange World
8. Charlotte The Harlot
9. Iron Maiden
Alessandro ‘Zac’ Zaccarini