Recensione: Isla de Muerta
Di solito almeno hai una mappa. Sia chiaro il tesoro non si trova mai dove è disegnata la X, però almeno avresti potresti potuto farti un’ idea seppur vaga di dove dirigerti, basta poco: un abbozzo di isola, uno schizzo di lembo di terra inospitale e la bussola a indicarti la via. Questa volta nulla, per un milione di barili di Grog rubati, nemmeno uno straccio di lembo. Quei maledetti (alla lettera intendo) medaglioni di Cortes li trovi solo se sai dove si trovano (notate anche voi l’ironia della cosa?) però anche una volta dissepolti, solo per averli toccati, diventi uno zombie e ti trascini iracondo per i mari dei caraibi, senza nemmeno poterti abbronzare. Immagino che nell’impossibilità di fare altro, ti ritroveresti a spaventare i tuoi ex colleghi pirati… brava gente che alla fine fa solo il proprio lavoro. Quindi mi ritiro? No, giammai! Quel tesoro deve essere mio, per tutte le casse da morto usate del mar dei Cairaibi!
Destinazione: l’Isla de Muerta.
Il capitano Burrows li aveva censiti nemmeno un anno fa e potete leggere le sue carte cliccando dove è disegnata la X. Un giorno mi chiama a sè con il solito fare burbero e mi ordina di occuparmene con la stessa cura con cui lui ogni giorno lui ripone la bandiera del Jolly Roger. Secondo le sue memorie Albion, dato alle stampe nel 2014, vedeva il ritorno della band inglese a degli ottimi livelli. Non avrei quindi dovuto (e voluto) deludere il capitano stavolta, non per questa nuova uscita che avrebbe potuto essere una conferma di una rinnovata giovinezza per il gruppo inglese.
I Ten li avevo conosciuti in ritardo. Infatti solo nel 1997 avevo avuto la fortuna di poter ascoltare il loro terzo album The Robe, splendido esempio di hard rock melodico che si venava di epicità ed energia anche grazie alla voce del talentuoso Gary Hughes. La band tuttavia era riuscita già nel 1996 a dare alla stampa due album intitolati X e The Name of the Rose. Impressionarono da subito lasciando presagire che molto probabilmente i Ten non si sarebbero persi lungo il cammino. A quasi venti anni di distanza li ritroviamo in un suggestivo deja-vu a pubblicare due album quasi consecutivi (altri tempi e diverso contesto sia chiaro). Si tratta quindi di capire se il nuovo lavoro sia la conferma di una ritrovata forma oppure un eccesso di confidenza.
Salpiamo quindi e ancora una volta si tratta di navigare a vista.
La prima traccia “(i) Buccaneers (Instrumental) (ii) Dead Men Tell No Tales” è composita: prende l’avvio in una marcia militare a solcare mari caraibici fatti di tempeste e cannonate da schivare per poi lasciare quindi la scena alla voce di Gary Hughes in un inno elegante e verosimilmente piratesco. Davvero un brano suggestivo e possente. Nella traccia successiva intitolata “Revolution”, qui i Ten scherzano con i generi quando riff saturi e pseudo industriali ci accolgono alla sprovvista, ma non è rivoluzione completa, infatti la voce di Hughes ci riporta su linee melodiche classiche, per poi tornare a scontrarsi nuovamente con distorsioni futuristiche. Il contrasto funziona.
Quindi ci involiamo verso una traccia sinfonicamente rock dal titolo “Acquiesce” e dalla prima nota vieni proiettato di nuovo in una bellissima illusione melodica che grazie alle chitarre di Dan Rosingana, Steve Grocott e il veterano John Haliwell si satura di energia.
Nella traccia quattro non possiamo fare altro che ammirarli correre nella melodia straripante di “The Dragon and Saint George”, sembra tutto facile per i Ten non solo perchè hai quella voce lì, ma ti rendi conto che l’illusione funziona anche grazie alle armonizzazioni delle tastiere di Darrel Treece-Birch e alla batteria di Max Yates in grado di inventare pur rimanendo implacabilmente sullo sfondo.
Segue “Intesify” i cui riff ondeggiano ossessivi, mentre le tastiere si sporcano di anni ottanta e la voce sembra duettare con se stessa. Non ci rimane poi che ascoltare il gruppo inglese mentre si diverte a creare assoli intensi e lucenti per poi rallentare solo per un attimo in note di piano classiche, ma è davvero questione di pochi secondi, perché il brano si muove verso la fine in un crescendo d’intensità.
Mai momento è stato più adatto per rallentare, infatti il brano che segue intitolato “This Love” è una ballad (chi l’avrebbe detto eh?) in cui le tastiere introducono e accompagnano la voce fino a che i toni non si alzano in chitarre potenti e in una batteria decisa a non far scendere di un’oncia la tensione. Splendida di nuovo la performance di Hughes.
La traccia intitolata “(i) Karnak (Instrumental) (ii) The Valley Of The Kings” è suddivisa in due parti: la prima di soli strumenti ad annunciarci che ora il mood si è modificato in qualcosa di orientale e ci prepara alla seconda parte che diventa hard rock intenso, impreziosito dalla solita capacità del gruppo inglese di mantenere un equilibrio tra melodia ed energia.
Per chiuderei passerei al brano più pesante del disco intitolato “Angel of Darkness” che rimanda ai brani più duri e veloci di Axl Rudi Pell, ma ancora una volta la personalità dei Ten emerge nel rendere elegante persino l’oscurità.
Se fossi chiamato a rapporto dal capitano Burrows? Cosa gli diresti? Con il dovuto rispetto signore, questi Ten mi hanno convinto. La produzione dei suoni è fantastica, potenti e puliti, nulla mai fuori posto. Poi i brani sono un connubio riuscito di melodia epica e hard rock…Però il Burrows è un duro e così non basta, lui sa che qualcosa non ha funzionato. Ci sono un paio di riempitivi a dirla tutta signore, compaiono nella seconda parte dell’album quando i Ten dismettono i panni di pirati e ci imbattiamo in “The Last Pretender” e “Tell me what Do”, entrambe esitanti e non particolarmente originali (a mio modo di vedere avrei preferito continuassero con il loro mood piratesco invece di mollare dopo la settima traccia). Però, intendiamoci, il resto è di ottimo livello, egregiamente suonato e cantato in maniera sublime. Vi sono anche elementi di originalità che non vogliono mai dire rivoluzione, ma continuare nella tradizione di un hard rock melodico sempre vivo grazie anche ad album validi come l’ottimo Isla de Muerta.
MARCO GIONO