Recensione: Islands
Quattordicesimo studio album per i progster svedesi The Flower Kings, attivi ormai da quasi tre decadi e rinati per volere dell’inossidabile Roine Stolt. Il menestrello scandinavo, dalla voce pacata e l’inconfondibile chitarra spigolosa (erede del miglior Steve Howe), decide infatti di riproporre il proprio progetto musicale nato a metà anni Novanta e rilanciato da una nuova line-up che vede alla tastiera Zach Kamins (An Endless Sporadic), già in forze al combo con il precedente Waiting for Miracles. Terza veste, dunque, per la band che stupì con il suo slancio entusiastico alla fine dei Novanta per poi dare il meglio (in termini di maturità compositiva) all’inizio del nuovo millennio pubblicando album come The Rainmaker e Unfold the Future.
Diciamolo subito, nel 2020 i TFK suonano prevedibili ma non meno piacevoli: le sopraffine linee di basso di Reingold, le voci perfettamente in sintonia di Stolt e Fröberg, e il drumwork di Mirko DeMaio sono garanzia di buona musica. Unico vero difetto della nuova (?) proposta sonora degli scandinavi è la minor ispirazione di fondo e l’apporto ancora acerbo di Zach Kamins, che tenta di non far rimpiangere il grande Tomas Bodin con mille trovate ai sintetizzatori, ma il risultato sa di mero copia-incolla derivativo.
Venendo ai dettagli, Islands è un doppio album di circa due ore ma dalla scaletta stranamente frammentaria e un solo pezzo attorno ai dieci minuti (“Solaris”). In generale tutto suona più rarefatto (si veda l’artwork), ma al contempo persiste la vena falotica e clownesca dei nostri, in un album che probabilmente bisserà il successo in patria del precedente disco e che nel bene o nel male restituisce il sound inconfondibile dei TFK. Resta infatti la grande ricerca melodica di Stolt e i rimandi ai soliti mostri sacri come Pink Floyd, The Beatles, Cream, ABBA, King Crimson, Procol Harum e Yes.
L’opener “Racing with Blinders On” ha un che di nostalgico, richiama nei primi istanti certi TFK che furono, con linee di basso sapide e un incedere dal buon groove. In “Black Swan” compaiono la voce inossidabile di Hasse Fröberg (che, ricordiamolo, ha anche prodotto buoni album solisti in tempi recenti), parti di pianoforte e un’ottima ricerca melodica. Ovattata e rilassante, invece, “Morning News”, con Stolt in piena comfort zone al microfono, un vero refrigerio, con tinte jazz e atmosfera crepuscolare. L’eclettismo dei nostri è onnipresente, così ritorniamo subito su lidi prog. nella successiva “Broken”, pezzo con una sezione centrale davvero intricata e Zach Kamins che tenta di emulare Jordan Rudess in fatto di virtuosismi. Forse, tuttavia, i momenti più toccanti dell’album sono i lenti: “Goodbye Outrage” ad esempio scalda il cuore infatti con la sola voce di Stolt e un’esile supporto strumentale di contorno. Altro buon highlight “Tangerine”, composizione magnetica e divertita che resterà tra quelle più memorabili del disco per ritornello e originalità: un potenziale singolo che andava valorizzato maggiormente. Le tinte epiche e visionarie di “Solaris” riportano alla mente i primi TFK, l’effetto nostalgia è assicurato, ma complessivamente la minisuite non ha il quid che ha reso grandi i classici del combo svedese.
Il primo disco è tutto qui, le ultime due tracce, pur godibili, non aggiungono molto a quanto proposto. Non siamo annoiati e nemmeno sazi della musica di Stolt. Veniamo allora al secondo disco. “All I need is love” è un altro opener ben arrangiato; lasciando da parte la citazione beatlesiana del titolo, è la voce di Fröberg a dare una marcia in più al brano, tra i meglio riusciti in scaletta. Ma Islands prevede anche momenti strumentali dalla spiccata vena sperimentale. “A New Spieces” da questo punto di vista non ha niente da invidiare a “The Devil’s Danceschool” o “Pioneers of aviation”. Dopo un avvio in lento crescendo, si sprecano i tempi dispari, Reingold imbraccia il suo fretless più languido e ovattato che mai, mentre il pezzo si snoda in meandri lisergici che non disdegnano passaggi intricati e labirintici. Questa volta, inoltre, va spezzata una lancia in favore di Zach Kamins, che traduce quanto di buono inventato con gli An Endless Sporadic in un brano targato TFK. Nel prosieguo il secondo cd perde un po’ di smalto, complice l’infilata “Northern Lights”-“Hidden Angels”-“Serpentine”, che propone un prog. rock dai ritmi fin troppo blandi e prevedibili; segnaliamo giusto alcuni momenti di “Serpentine” sia per le walking line di Reingold, sia per la presenza del sax di Rob Townsend, che arricchisce il sound degli svedesi, facendo da contrappunto sofisticato alla vena goliardica dei nostri. Gli ultimi venti minuti del platter regalano qualche chicca aggiuntiva, ma non ci sono veri momenti apicali. Possiamo citare le venature araboidi in “Looking for answers” (brano che include parti per organo e coro), la lisergia di “Telescope”, la voce filtrata di Stolt in “Between hope & fear”, oltre agl’istanti conclusivi della titletrack che citano i migliori Yes. Fine, il sipario si chiude…
Premesso che l’album ai primi ascolti non dice molto, ma necessita di un approccio ripetuto, che dire di Islands? I TFK sono tornati per stupire? Roine Stolt ha sicuramente vissuto diversi momenti memorabili nella sua carriera: gl’inizi da ragazzo prodigio con i Kaipa, il prog. rock scanzonato (davvero rock!) degli esordi con i TFK; le vette sperimentali dei primi anni Duemila (che hanno visto anche la sua partecipazione nei Transatlantic e il suo album solista più riuscito, Wall Street Voodoo). Islands è un album onesto che ripropone la classe degli svedesi, riesce anche a risultare leggermente più longevo del suo predecessore Waiting for miracles (ma anche di Banks of Eden e Desolation Rose). Alcuni brani sono di sicuro impatto e vanno ad arricchire la sterminata discografia degli scandinavi, nella fattispecie “Racing with Blinders On”, “Tangerine”, “All I Need Is Love” e “New Species”. Quello che manca è l’ispirazione di due decadi fa, ma non possiamo incolpare Stolt e compagni per un calo fisiologico di creatività. Quella dei The Flower Kings resta musica di classe, ben prodotta e con un suo quid di indiscussa originalità. E se è vero che oggi della magnificenza che fu resta solo un “calore di fiamma lontana” è comunque un tepore che riscalda ancora l’anima degli ascoltatori più fedeli e riconoscenti al chitarrista di Uppsala.